Il romanzo gotico è tornato a infestare il cinema contemporaneo: con il suo essere un genere ibrido, mostruoso, frutto dei fumi della Rivoluzione industriale e della febbrile immaginazione di una società vittoriana alla ricerca di nuovi modi di esorcizzare i mostri della modernità, le cupe creature del crepuscole diventano una matrice elastica che si presta a svariati recuperi, riletture e rielaborazioni.
Dopo il rinnovato interesse nella figura dei vampiri con il Nosferatu di Eggers, anche la figura del mostro di Frankenstein si prepara ad assumere nuove vesti nell’orizzonte cinematografico.
Una tendenza anticipata dalla Bella Baxter di Povere creature! e prefigurata dai futuri progetti di registi come Guillermo del Toro e Maggie Gyllenhaal, la figura della creatura riportata in vita dalla scienza si prepara a uno spettacolare ritorno sulle scene.
Ma se Del Toro ha deciso di attingere direttamente dal romanzo di Shelley, Gyllenhaal decide di ripartire dal cinema: come il Nosferatu di Eggers che riprende la storia di Dracula assorbendo e rimasticando il suo alter ego cinematografico costruito da Murnau, anche la regista di The Lost Daughter con il suo The Bride! ricama la sua storia sullo scheletro di un illustre antenato, La moglie di Frankenstein (1935) di James Whale.
Il sequel di Frankenstein tra letteratura gotica e industria hollywoodiana
La necessità di spremere il successo del primo Frankenstein di James Whale porta il cinema a creare un ipotetico prosieguo della storia di Mary Shelley: ma se in molti casi i sequel dettati da un’esigenza di tipo commerciale non si dimostrano all’altezza dei loro predecessori, La moglie di Frankenstein è riuscito nell’impresa di affermarsi come opera autonoma diventando rapidamente una pietra miliare della storia del cinema horror.
Il cinema attinge dalla letteratura per delle storie, per dare un volto ai mostri che hanno vissuto tra la parola scritta e le evocazioni della nostra immaginazione, per poi prendere la sua strada e facendosi autore, aprendo porte apparentemente chiuse e resuscitando i non-morti.
Infatti ne La moglie di Frankenstein la mostruosa e malinconica creatura assemblata dallo scienziato sfugge all’incendio letale che chiudeva il film precedente per continuare la sua disperata ricerca di un amico, di un mentore, di un amore.
La storia viene riaperta proprio dall’autrice del romanzo: il film di Whale parte da una conversazione tra Mary Shelley, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron in cui la scrittrice narra un ipotetico prosieguo della sua storia.
Stabilita questa legittimità fittizia dall’alter ego filmico dell’autrice, il racconto de La moglie di Frankenstein può proseguire con le proprie gambe: il mostro di Boris Karloff riemerge dalle ceneri del primo film, con tanto di capelli bruciacchiati e cicatrici in fase di guarigione causate dall’incendio al quale è sfuggito, e si mette alla ricerca di una creatura affine che possa comprenderlo, accettarlo e amarlo.
La moglie di Frankenstein tra blasfemie e icone
In La moglie di Frankenstein, Victor Frankenstein, il creatore, è pronto a lasciarsi tutto alle spalle per amore della moglie Elizabeth: ma il dottor Pretorius si presenta alla sua porta per ricordargli le sue responsabilità nei confronti della creatura a cui ha dato la vita. E lo fa con una proposta: quella di creare una compagna per il mostro, con l’ambizione biblica di dare vita a un’intera popolazione di creature riemerse dalla morte grazie al potere della scienza.
Dei novelli Adamo ed Eva fatti di pezzi di carne in putrefazione ricuciti e rianimati da una misteriosa scarica elettrica il cui segreto di creazione è custodito dal Dio scienziato che si riserva il diritto di creare o di distruggere la vita. La scienza percorre gli stessi binari della religione nel ricreare le sue gerarchie immutabili, in un intreccio nebuloso tra fede e blasfemia, progresso e degradazione, tra la vita e il suo simulacro.
In questo calderone filosofico la creatura solitaria e disperata è un fantasma di Cristo: riemergendo dalla morte ne ripercorre il percorso all’inverso, portando su di sé tutta la sofferenza e la crudeltà dell’essere umano. Bussa a ogni porta con il desiderio di essere riconosciuto e accolto, invano: il suo essere una figura cristologica viene segnalata esplicitamente in diverse scene, una scelta che costerà a Whale diverse grane con la censura sia prima che dopo l’uscita del film.
La moglie di Frankenstein, un’apparizione fugace e incendiaria
E la futura moglie? Nonostante sia la protagonista del titolo, la sua comparsa solo a pochi minuti dalla fine del film per poi morire subito dopo insieme al dottor Pretorius e alla creatura di Frankenstein. Eppure questa fugace apparizione in La moglie di Frankenstein è stata sufficiente per rimanere impressa nella memoria collettiva e nella storia del cinema, anche grazie al lavoro meticoloso del truccatore Jack Pierce che contribuisce in modo tangibile alla scrittura stessa del personaggio
La scena della sua nascita è uno dei momenti più iconici di La moglie di Frankestein grazie alla direzione magistrale di Whale e alla figura imponente di Elsa Lanchester, che con pochi gesti e le sue urla inumane diventa in pochi minuti una figura archetipica in cui si riassumono le tematiche al cuore di Frankenstein: il libero arbitrio, il bisogno innato di amore, il conflitto tra scienza e natura e tra scienza e fede.
La sposa, di bianco vestita e con le cicatrici dell’assemblaggio post mortem ben in vista, è stata costruita in funzione della creatura di Frankenstein, con l’obiettivo di essere la sua compagna e di renderlo più mansueto, più assimilabile al consorzio umano.
Il monito regolatore del matrimonio, «finché morte non ci separi» si estende al di là del confine naturale della morte, annullato dagli esperimenti del dottor Pretorius e del suo pupillo. Ma la sposa si ribella: con un urlo glaciale e intriso di orrore rifiuta l’unione con la creatura e si sottrae al destino architettato dal suo inventore.
La storia si ripete: la creatura sfugge al controllo del creatore seguendo le proprio regole interiori, indecifrabili e indipendenti dalla volontà tirannica degli uomini.
«Voglio morire» sentenzia il mostro, ancora una volta illuso dalle promesse del suo creatore. E con un colpo solo distrugge tutto ritornando allo stato iniziale della morte, quello stesso stato dal quale è stato strappato con la forza, condannati a una seconda vita di rifiuto e sofferenza.
Ma allo stesso tempo priva la sua futura sposa della sua seconda possibilità, di una rinascita ancora pregna di possibilità: come avrebbe vissuto la moglie di Frankenstein se fosse sopravvissuta al crollo del laboratorio?
Avrebbe percorso il mondo tormentata dalla solitudine e dal disprezzo degli umani come la sua controparte o avrebbe creato un’esistenza ai margini degna di essere vissuta?
Queste domanda potrebbe essere l’inizio di una nuova storia, di un ulteriore racconto di un’altra Mary Shelley filmica che riavvolge la pellicola e prolunga quei pochi minuti in cui la moglie di Frankenstein del 1935 ha vissuto la sua breve vita, e da figura iconica diventa protagonista autonoma che porta avanti la sua ribellione portando avanti la propria storia in un altro tempo, in un altro luogo, in un altro cinema.
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