“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.
-P. Nizan, Aden Arabia
Roma, Mandrione. Bianca pedala in bicicletta, rivolge lo sguardo in basso, in direzione dell’asfalto, e poi davanti a sè, inciampando nel vento, nel vuoto, nel ricordo. È così che inizia L’albero. Tra via Casilina e via Tuscolana, nella solitudine di una strada che è un abbraccio tra lenzuola di terra troppo sole. La macchina da presa la insegue, o forse è proprio lei a inseguire la macchina da presa, mentre insegue un volto, un nome: Angelica.
“Chissà se ti ricordi, e cosa ricordi. Sette anni fa, o cinque, o cento. I colori, la luce e questo vento fresco che a Roma ormai è così raro. Proprio oggi, alle porte dell’estate, torna questa anomalia, che fa alzare il colletto della giacca, irrigidire le spalle e maledirsi per essere usciti senza sciarpa. Non tu. Certo, tu la mettevi sempre”.
È la voce fuoricampo della protagonista Bianca (interpretata da Tecla Insolia) a dare un suono alle prime inquadrature del film L’albero di Sara Petraglia, presentato in anteprima il 22 ottobre 2024 alla Festa del Cinema di Roma e distribuito nelle sale italiane a partire dal 20 marzo 2025. Un’opera prima che nasce dal tentativo «di elaborare un vissuto denso, traumatico, ma anche felice, di trasformare in parole il sentimento della nostalgia, di riportare indietro cose che se ne stavano andando o se n’erano già andate», come dichiarato dalla regista stessa.
L’albero, storia di una giovinezza che si sgretola
Quella che Sara Petraglia racconta nel suo film d’esordio L’albero è la storia di una giovinezza che si sgretola, si sparpaglia e si arrotola su se stessa prima di svanire, quella di Bianca e di Angelica; o forse sarebbe meglio scrivere quella di BiancaeAngelica, poichè si ha l’impressione che il volto di Angelica (interpretata da Carlotta Gamba) esista solo se riflesso negli occhi di Bianca, che la vita di Angelica esista solo se a darle vita è la scrittura intensa, drammatica e malinconica di Bianca.
Le due protagoniste del film L’albero hanno vent’anni, ma la loro non è la più bella età della vita. Vivono insieme in un appartamento al Pigneto, non frequentano l’università, sono dipendenti l’una dall’altra ma soprattutto dalla cocaina, che le fa precipitare, perdere, smarginare. Bianca vorrebbe scrivere tre libri, uno sulla cocaina, uno sull’amicizia e uno sull’amore, ma in fondo scrive quasi sempre e quasi solo di Angelica.
Bianca s’innamora «della vita tutta intera», si domanda «perchè siamo tutti così tristi», balla, piange, si diverte, aspetta che succeda qualcosa di orribile ai suoi amici, che trasforma nei personaggi del suo grande romanzo, solo per poterlo scrivere – come le rimprovera Angelica in una scena del film L’albero. Nel suo iperuranio interiore non c’è spazio per la felicità, ma solo per la nostalgia di un presente impossibile da vivere, di un presente che, trasfigurato dalla scrittura, diventa precocemente passato, diventa precocemente un ricordo.
E poichè «quando desideri con tutto il cuore che qualcuno ti ami, dentro ti si radica una follia che toglie ogni senso agli alberi, all’acqua e alla terra» – come scrive Denton Welch -, Bianca incanta i desideri, uno ad uno.
L’albero, l’ossessione per il tempo che (non) passa
L’albero di Sara Petraglia è un coming of age che si colloca sulla stessa linea di Diciannove di Giovanni Tortorici, in cui l’età adulta non è la meta, in cui la fuga è sostituita dal viaggio, in cui partire significa prima di tutto tornare, perdersi, non ritrovarsi mai più, con la consapevolezza che «forse nessuna cosa andrà perduta».
«Siccome siamo così giovani, ci sembra così tardi» scrive Bianca, e dietro le sue parole si nasconde un’ossessione, quella per il tempo, che ha radice nelle parole del poeta in cui più di tutti ha l’impressione di vedere riflessa se stessa: Leopardi. È Leopardi, infatti, nello Zibaldone, a definire il tempo «uno accidente delle cose». È Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, a domandarsi «ed io che sono?» Ed è ancora Leopardi, nel XXXIII dei Canti, Il tramonto della luna, a scrivere che «tal si dilegua, e tale/ lascia l’età mortale/ la giovinezza».
Una giovinezza – quella raccontata ne L’albero – che si dipana tra Roma, Napoli e Milano e che si perde in una lontananza, quella evocata da due canzoni facenti parte della colonna sonora del film: Lontano dagli occhi di Sergio Endrigo – sulle cui note Bianca e Angelica ballano mentre sono in bagno, in una scena del film – e Io ho te dei Diaframma – che accompagna le ultime inquadrature del film.
Perchè se «c’è nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è», «ti dovrei bere, magari chiamare, ma è proprio quello che non voglio mai fare (…) Nel cielo fatto di attimi, nel cielo fatto di te, io vorrei tanto confondermi. (…) E se è anche vero che tu sei lontano, c’è questo tempo che mi tende la mano».
Osservando lo sguardo di Bianca riflettersi in quello di Angelica è impossibile non pensare a una canzone, Le ragazze stanno bene di Le luci della centrale elettrica, che non fa parte della colonna sonora del film L’albero ma che racconta una storia – quella di Sara e Chiara – non molto lontana da quella di Bianca e Angelica. Una storia fatta di spazi bianchi, binari, meteoriti, futuri senza alternative e appartamenti pieni di voci:
“Mezzanotte e i passanti si tengono a distanza, Chiara aspetta con le quattro frecce, Sara che aspetta di cadere, incendiando il cielo come un meteorite. (…) Sara, sei ancora più bella la sera quando sei stanchissima, sei ancora nella mia memoria interna, sei l’interpretazione dei sogni che non riesco a ricordarmi. (…) E forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa. E forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima Odissea di cui nessuno si ricorderà”.
– Le ragazze stanno bene, Le luci della centrale elettrica
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