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Last Stop Before Chocolate Mountain, un carosello di vita ai margini

Un documentario che indaga i confini più nascosti della società americana

6 minuti di lettura

Last Stop Before Chocolate Mountain, prodotto da Doclab e distribuito da Zalab, è un documentario scritto e diretto da Susanna della Sala, che decide di affrontare il tema forte dei disastri ecologici esplorando le rive di un lago tossico in California. Il film è stato presentato nella sezione Semaine de la Critique del Festival di Locarno e al concorso italiano del Festival dei Popoli, dove si è aggiudicato ben tre premi. La scalata di questo piccolo gioiello sembra ancora lunga: Last stop before chocolate mountain è tra i 10 finalisti al premio David di Donatello Cecilia Mangini per il miglior documentario.

La fine della strada

Last Stop Before Chocolate Mountain

“I don’t know what really, really happens at the end of the road.”

Se la cantante Noga Erez si chiede che cosa succeda quando la strada finisce, il documentario Last stop Before Chocolate Mountain ce lo mostra. Non è un caso che il film inizi con un cartello che segnala la fine di una strada, che corrisponde all’inizio del racconto di un luogo che è rimasto sospeso nel tempo.

Bombay Beach – set e soggetto del documentario – viene narrata dalla regista Susanna della Sala come una favola dolceamara.

Le premesse della sequenza notturna iniziale sono chiare: le immagini oniriche e le musiche stridenti sono il presagio di un incanto che al suo interno contiene un elemento dissonante, una crepa.

Lo sviluppo del film si costruisce intorno alla graduale scoperta di quale sia questo elemento, di come si sia formata questa crepa.

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Last Stop Before Chocolate Mountain, un luogo sospeso nel tempo e nello spazio

Last Stop Before Chocolate Mountain, sospeso nel tempo

Bombay Beach si trova nel deserto californiano. Un tempo rinomata località balneare, la città è stata colpita all’inizio degli anni ‘80 da un disastro ambientale che l’ha portata a un improvviso declino.

Quello che resta di Bombay Beach sono poche case abbandonate e pochissimi abitanti, lasciati ai margini di una società che li ha rifiutati e che loro stessi rifiutano. Si tratta di una società che, così come i treni che passano a tutta velocità in mezzo a quel deserto, è passata solo temporaneamente da lì, lasciando dopo il suo passaggio uno scenario desolante.

La vita a Bombay Beach è gestita dai suoi abitanti, non c’è autorità e lo Stato è assente: non ci sono presìdi, un Comune, la polizia. Gli abitanti vivono secondo i propri termini sentendo un forte sentimento di appartenenza e allo stesso tempo un grande senso di sradicamento.

La regista lascia il racconto alle voci di alcuni di loro – una madre che ha da poco perso un figlio, un pastore evangelista, un veterano del Vietnam, un ex detenuto, l’erede di una famiglia decaduta – e li segue nei loro movimenti per la città. Queste persone sono accomunate da una situazione personale e familiare complessa, fatta di liti, allontanamenti, dolore, ma anche volontà di riconciliazione con il sé e con l’altro.

Bombay Beach nelle loro parole è cristallizzata nel tempo, lo scarto tra quello che è stato e quello che è oggi risulta enorme ed è sottolineato dall’accostamento delle immagini contemporanee a filmati d’archivio degli anni ’50, ’60 e ’70 in cui si mostrano famiglie in vacanza che pescano, giovani che fanno sci nautico, bar affollati.

Un nuovo inizio

Last Stop Before Chocolate Mountain, un nuovo inizio

È con il procedere della narrazione che la favola si popola di nuovi personaggi: una comunità di artisti trova in Bombay Beach un terreno fertile per l’espressione della propria creatività. La città si anima di nuova vita e il suo panorama cambia: vengono costruite installazioni artistiche, le vie e i capannoni abbandonati diventano teatro di rappresentazioni, concerti, danze.

Questi giovani si scontrano però con una resistenza iniziale e vengono osteggiati a causa di quello che in un primo momento viene vissuto come un tentativo di gentrificazione, un modo di intervenire sull’essenza della città e uno stravolgimento del suo genius loci.

Le reticenze iniziali vengono superate e il risultato è un’unione armoniosa e commovente dei vecchi abitanti e dei nuovi artisti, un viaggio psichedelico che riesce a combinare le unicità di identità non conformi. Il culmine e il punto di arrivo di questo viaggio è una grande parata in onore del figlio deceduto della matriarca del paese in un carnevale ricco di colori e danze che celebra allo stesso tempo la morte e la vita.


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Nata e cresciuta a Milano, laureata in lettere ed editoria, appassionata e lavoratrice del cinema. Trovo nel documentario in tutte le sue forme e modalità il mezzo ideale per rappresentare, conoscere e riflettere sulla realtà.

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