Maria di Pablo Larraín, in concorso a Venezia 81, è un film di chiusura che parla di morte, icone e fantasmi. Finale della trilogia di biopic incentrati su figure femminili che hanno segnato la storia del Novecento, il film del regista cileno su Maria Callas con protagonista Angelina Jolie (una diva chiamata a interpretare un’altra diva, ndr) non solo rappresenta la chiusura di un cerchio iniziato con Jackie e Spencer, ma sceglie di mettere al centro del suo racconto il concetto di fine ridelineandone i contorni.
Partendo dai giorni finali della vita de La Divina, Maria tratteggia il ritratto di una donna eccezionale immersa in uno stato liminale, sospesa tra la vita e la morte in una dimensione dove i fantasmi si fanno carne e il tempo del presente si confonde con il mondo dei ricordi.
Maria, il misticismo della diva
La Maria Callas portata in scena da Jolie è una figura femminile monumentale, splendente nella sua decadenza, potente nella sua vulnerabilità: come la Diana di Spencer, Maria si aggira irrequieta per le stanze della sua villa, prigioniera di una gabbia d’oro e tormentata da fantasmi del passato che la perseguitano e la opprimono.
La stessa Maria è un fantasma di sé stessa, schiacciata dal ricordo sempre più lontano della sua grandezza, dalla figura della grande soprano ammirata da tutto il mondo, oggetto di un’adorazione vorace e assoluta che trasforma la donna in icona.
Ciò che accomuna le figure femminili della trilogia di Larraín è proprio il loro statuto di icona: Jackie, Diana e Maria sono accomunate da una fama straordinaria, avvolte da un’aura leggendaria già durante la loro vita. Una fama che le ha rese immortali nella memoria collettiva, ma anche una fama sofferta, asfissiante, tiranna.
E in un mondo popolato di fantasmi e di visioni come quelli costruiti da Larraín nella sua trilogia l’icona diventa spettrale nel suo essere impalpabile, sfuggente e misteriosa. La fama di Maria trascende il suo corpo di diva e la separa dal resto del mondo, costringendola a una solitudine che diventa terreno di comunicazione con un mondo altro, invisibile agli occhi degli altri.
Maria Callas, icona novecentesca tra sfarzo e decadenza
Pablo Larraín mette in scena l’icona, la leggenda, la diva con il suo charme carico di mistero e le sue idiosincrasie, ma ciò che riempie la scena è la sua solitudine: Maria attraversa spazi ampi e vuoti, dai corridoi immensi della sua casa alle strade di Parigi. Anche sulla scena, nelle numerose sequenze di canto lirico La Divina è da sola: ma sul palco è padrona della scena, riempie e domina lo spazio con la sua presenza solenne e con la sua voce straordinaria.
Il palcoscenico è sempre nella sua mente, come dichiara lei stessa: lo porta dentro di sé ovunque vada, trasformando la vita in spettacolo. Maria Callas diventa l’incarnazione del secolo che l’ha vista risplendere, il Novecento, riflesso splendente e patinato delle paure e delle fragilità di un secolo caratterizzato da profonde trasformazioni, traumi insanabili e grandi rivoluzioni.
Maria di Pablo Larraín è l’aria finale della sua trilogia, ma è anche un racconto sulla fine, sulla morte come soglia e come punto di inizio di qualcosa d’altro, di una dimensione segreta e inaccessibile, dove il passato si svela e diventa l’unica forma di vita possibile, unico punto di fuga nella gabbia dell’usignolo. Il gran finale di una vita splendida, tormentata, straordinaria.
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