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Mia, l’incomunicabilità del dolore

Il film di Ivano de Matteo si muove tra adolescenza e genitorialità nel racconto crudo e impotente di un amore tossico. Nonostante tutto, però, il risultato è agrodolce.

11 minuti di lettura

Mia, il nuovo lavoro di Ivano De Matteo, è tante cose. È soprattutto verità, crudezza, dolore, inadeguatezza e incomunicabilità. C’è un aspetto interessante che deborda da ogni piega del film ed è quel senso di isolamento, quasi viscerale, quasi naturale, che tutti siamo chiamati a provare quando percepiamo di non essere ascoltati, visti. E poi c’è un’ovvietà: il dolore è singolo, individuale, gelosamente vissuto anche quando si ha la fortuna di avere intorno la più amorevole rete di salvataggio.

Scritto a due mani insieme alla compagna Valentina Ferlan, con l’aiuto della sensibilità e dello sguardo della loro figlia adolescente, Mia (in sala dal 6 aprile) è frutto di un’urgenza: raccontare, confrontarsi ed esorcizzare le paure di una genitorialità che assiste, impotente, al lento deturparsi della vita di una quindicenne.

La macchina da presa di Ivano De Matteo macina la materia narrativa pezzo per pezzo, muovendosi a ritmi alternati tra relazioni tossiche, stalking, manipolazione, depressione e revenge porn. Lo fa senza risparmiarsi, donandosi con sincerità, sconfinando sul finale ma restando fedele alla sua necessità di racconto testimoniale, documentario, sempre ormeggiato all’emotività di tutti i personaggi presenti in scena.

“Non ho più una figlia, ho un alieno”

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Spesso i film sono fatti dell’insieme dei loro dettagli. Quelle particelle microscopiche che li rendono palpabili e armonici rispetto a ciò che lo spettatore conosce di sé e riconosce nell’altro.
Mia è uno di questi film. La staffetta intergenerazionale tra l’occhio della figlia e quello dei genitori, seppur preponderante sul filtro osservativo dell’adulto, riesce a mantenersi in equilibrio nel tentativo di accordarsi a sensibilità differenti.

Semplificando: i giovani sembrano giovani sul serio, raramente stilizzati da quel goffo – e cringe – espediente di trasformarli in marionette che dicono e fanno cose da adolescenti. La famiglia si comporta da famiglia, i gesti e i rituali quotidiani ricordano la normalità.

Mia (Greta Gasbarri) è una ragazza timida che si sta scoprendo attraverso le amiche, la musica, lo sport, l’aspetto, i social e i ragazzi. Sua madre e suo padre la amano, lo fanno nel modo più naturale possibile, cercando di conoscerla, capirla, imporle limiti e accettare le piccole ribellioni. Procedono a tentoni, per prove, consapevoli della necessità di conformarsi ai linguaggi, gli interessi e le esigenze di una gioventù che alle volte non può che apparire aliena. I due genitori sono legati da un amore vivo, complice nella relazione a due, collaborativo nel ruolo parentale, costruttivo nelle difficoltà.

Valeria (Milena Mancini) è una madre empatica, affettuosa, mediatrice delle animosità tra padre e figlia. Sergio (Edoardo Leo) è un buon osservatore, protettivo ma autoironico, fragile ma combattivo; parla di streamer, youtuber e tiktoker senza comprenderne le differenze, ma ad entrare nel suo mondo e a proteggerla ci prova fino in fondo. Fino a consumarsi.

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L’incomunicabilità che vive nel film parte da qui, come divario quasi fisiologico dell’adolescenza e come una scintilla che contaminerà tutto ciò che verrà dopo. Dopo verrà Marco (Riccardo Mandolini), il primo ragazzo di Mia, giovane ventenne morboso e violento (e a tratti troppo tipizzato). Verrà una relazione tossica, esito di uno schema predatorio facilmente riconoscibile: lusinghe, premure, gesti eclatanti, controllo, proibizioni, regole, manipolazioni, gelosia e progressivo isolamento.

L’isolamento, quello soggettivo, spesso irreale dall’esterno ma pesantissimo nell’individualità, quello che non risparmia nessuno, dentro Mia: tocca tutti perché risuona l’inspiegabile incapacità di connettersi agli altri, anche quando ci si vuole bene, finendo risucchiati da una solitudine che ha le tinte di un diverso sentire. Le emozioni sono personali, non sempre condivise e nell’estremo della loro natura sanno generare distanza, inconciliabilità, increspature. Che sia fra padre e figlia, moglie e marito, fidanzata e fidanzato, il dialogo è il tesoro da ricercare, la sostanza da proteggere e, a volte, la sfida più difficile da affrontare.

Mia, il problema dell’incertezza

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Il film di Ivano De Matteo pulsa di temi, di toni e di temperature mutabili. È ancorato a un’idea di racconto coscienziosa, priva di retorica, assente di giudizio ma è anche complice di scelte che sembrano sorprenderne l’incertezza.

Negli anni del politicamente corretto ogni decisione artistica è questione di dibattito, le appropriazioni di storie, battaglie e lotte di qualsivoglia minoranza generano una tipologia di discussione in cui è difficile posizionarsi. Qui la narrazione frastaglia con durezza la condizione femminile nei suoi aspetti più problematizzati, lo fa con rispetto e lo fa politicizzandosi nella scelta di mostrare, esponendosi.

Al netto del suo merito, Mia sceglie di ancorare lo sguardo a un personaggio maschile, doppio implicito del suo autore. Ora, se il cinema fosse fatto solo di trasposizioni di esperienze e condizioni personalmente vissute, probabilmente ne uscirebbe sconfitto, rinunciando alla sua natura e tipizzandosi in rappresentazioni che avrebbero l’effetto di allargare le crepe della marginalizzazione, invece di sanarle. Il problema del film, quindi, non è tanto la sua ottica di osservazione, che è di per sé una storia, ma il mutamento dell’asse su cui si disloca. I primi due atti viaggiano in simmetria tra gli universi generazionali, muovendosi tra la vita di Mia e quella dei genitori (con uno sbilanciamento ricercato ma sottile verso il personaggio di Sergio).

A seguito di un evento madre, tragico, traumatico e definitivo per la frantumazione del microcosmo familiare, il focus tende a spostarsi, sempre di più e sempre più a fondo, verso un inferno esistenziale rotante quasi esclusivamente intorno alla figura del padre. Mia diventa altro, sfiorando un cambio di genere ed eclissando le controparti femminili. Anche qui, la libertà di espressione richiede uno sguardo e l’artisticità è fatta di arbitrio, quello che stona è però un senso di incertezza intorno alla posizione presa nei confronti di Sergio.

De Matteo getta un’ombra sulla mascolinità, troppo spesso tracimata da un’aggressività tossica che avvelena anche, suo malgrado, la figura del padre. Ma nel finale il messaggio sembra venire smussato, sotteso, quasi redento a favore di una più allargata denuncia istituzionale. L’interrogativo è lecito: fino a che punto si è disposti a spingersi nello smascherare la natura violenta di una virilità incapace di elaborare, sanamente, la propria emotività? È un tentativo di accusa accortamente generalizzato o è solo la nevrosi di un padre che di fronte a un dolore troppo grande ha perso la ragione? Probabilmente la risposta sta nel mezzo e si nutre di complessità, ma in un’opera che sensibilizza con tale onestà, l’esitazione, inevitabilmente, sconta la sua insicurezza.

L’imperfezione di un film agrodolce

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Non c’è da essere perfetti, per essere dei buoni film. Mia è esattamente questo, un buon film con delle imperfezioni che ne difettano la resa finale.

Ivano De Matteo si serve di una regia che sa abitare la narrazione, inserirsi negli appartamenti, nelle strade, nelle lacrime, nei cipigli, nelle assenze e le leggerezze dei suoi personaggi. Sa prendersi i suoi tempi, rallentare sui particolari, suggerire il senso di pericolo. La macchina da presa, immobile o a mano, è una presenza viva, ammonitrice di un occhio che stalkera dall’esterno ma anche compagna discreta di una gracile intimità emotiva. Sa essere abile anche quando è la storia a sfaldarsi, stretchandosi in un terzo atto che sovrabbonda fino ad annacquarne la drammaticità, smarrendosi in didascalismi narrativi e visivi che propendono verso un’esaltazione esasperata del dolore.

Quello di De Matteo è un film contemplativo, di prossimità e di collaborazione empatica con quanto narrato. A volte lo è troppo, soffocato da un traballamento che sul finale mescola temi e capitola nella privazione di quelle profondità e sincerità che tanto – e bene – avevano accompagnato la prima parte. Tuttavia l’eccesso non ne mortifica il valore: resta un’opera viscerale, dura, ben scritta e ottimamente interpretata. Mia è un vero pugno allo stomaco, peccato che il suo sapore rimanga agrodolce.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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