Sbarca a Venezia anche Erik Matti, amato cineasta filippino, con una nuova opera thriller, On The Job: The Missing 8. Il film, sequel di On The Job, presentato a Cannes nel 2013, riprende le fila delle vicende politiche di corruzione e malaffare nella città di La Paz. La pellicola, di durata ambiziosa (208 minuti), alterna varie tecniche cinematografiche a rari momenti di azione e lunghi dialoghi che sembrano frenare eccessivamente il tempo della narrazione.
Di cosa parla On The Job: The Missing 8
Sisoy Salas (John Arcilla) è un famoso speaker radiofonico, conosciuto per la sua simpatica trasmissione foraggiata dal potere locale. Lo Zio, così chiamato da tutti, è amico di tutti i potenti, ma soprattutto di Pedring Eusebio (Dante Rivero), sindaco dispotico in carica nella città di La Paz. La profonda ammirazione di Sisoy verso la politica locale inizia a vacillare quando viene operato un attacco deliberato al giornale LPN, diretto dal suo amico Arnel Pangan (Christopher De Leon). Otto persone (sei dipendenti, Arnel e suo figlio) scompaiono misteriosamente per mettere a tacere le voci irriverenti dell’LPN, testata scomoda e indipendente che infastidisce i potenti governanti. Lo Zio inizia quindi a cercare la verità, mettendo in dubbio i suoi ideali e scoprendo altarini nella contraddittoria realtà filippina.
Ciò che viene ripreso dal primo film della serie è il modus operandi della criminalità. Infatti, i grandi detentori del potere si sbarazzano di sgraditi avversari e contestatori prelevando detenuti dalle carceri e mandandoli come sicari a compiere il lavoro sporco. Questo lungo thriller giornalistico e poliziesco cerca di fare luce nel delittuoso mondo della corruzione filippina, mostrandoci scene atroci della malavita e il degrado dell’immoralità politica.
Perché guardare On The Job: The Missing 8
Dietro On The Job: The Missing 8 c’è HBO Asia e si sente. La produzione di questo colosso non sarebbe stata possibile senza questo gigante della produzione cinematografica alle spalle. Ma ancora più indispensabile si rivela il regista, Erik Matti, che ispirandosi ai grandi gangster movie di Scorsese ci intrattiene con questo dramma poliziesco. Sullo schermo il racconto di una terra lontana da noi nello spazio, ma che si avvicina parecchio per le sue circostanze.
Il regista ci parla di corruzione, ingiustizia, potere, onore e violenza e si rivolge ad un pubblico universale mettendo in scena il tragico di una nazione messa in ginocchio dalla malavita. Avere i criminali per le strade oppure averli al governo? Questo il grande dilemma che varca le menti degli abitanti di La Paz, tanto contenti per il loro sindaco che ha ripulito la città, quanto preoccupati dal modo in cui questa pulizia è stata messa in atto.
Perché On The Job: The Missing 8 è un lavoro riuscito soltanto a metà
On The Job: The Missing 8 si rivela un po’ un guazzabuglio. L’intento di Matti era molto chiaro nel primo film: creare un racconto action di una realtà atroce. Una volta chiaro il progetto quindi la pellicola è venuta da sé dando vita a una narrazione interessante, che colpisce per la verosimiglianza e che intrattiene grazie all’azione. Non si può dire altrettanto riuscito questo secondo progetto. Troppi soggetti e troppe tematiche confondono e fanno perdere il filo della storia che a tratti arranca, quasi incagliata nei vicoli ciechi da lei stessa formati. Al thriller e alla critica sociale del primo film sono stati infatti aggiunti la corruzione dei media, il dramma dell’impossibilità di opposizione al regime, il tema dei desaparecidos (caro a questa 78esima Mostra), l’introspezione dei personaggi con le loro storie e le loro famiglie.
Anche a livello stilistico si rimane leggermente sconcertati. Ad espedienti classici del genere d’azione si sommano elementi grafici singolari, ma che non bastano a risollevare l’interesse dello spettatore. Stimolante l’idea di una colonna sonora pop di brani filippini che però sembra eliminare la tensione nei momenti sbagliati che avrebbero invece dato profondità e movimento alle vicende. Nonostante la trama regga bene per tutte le oltre tre ore di visione, senza mai essere particolarmente pesante, il lavoro di Matti non decolla e le scelte narrative risultano stanche e a tratti inserite solamente per strizzare l’occhio allo spettatore (senza però riuscirci).
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