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Our Father, quando il reale ha risvolti horror

La recensione di Our Father, il documentario Blumhouse che unisce finzione e realtà. Ecco perché l'operazione apre riflessioni importanti.

5 minuti di lettura

La casa di produzione statunitense fondata da Jason Blum, Blumhouse, è specializzata nella produzione di film horror. Paranormal Activity, Split, Get Out, Us, sono solo alcune delle produzioni Blumhouse. Verrebbe da chiedersi perché la Blumhouse abbia prodotto un docu-film su un caso di cronaca ambientato negli anni ’70 e ‘80 legato a una clinica ginecologica a Indianapolis.

La risposta è immediata: la vicenda che il documentario ricostruisce ha risvolti inquietanti che disturbano quasi quanto la trama di un film horror ben realizzato.

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Our father è dunque una commistione di registri all’apparenza molto diversi, quello documentaristico e quello finzionale e horror, che tuttavia grazie alla natura della tematica affrontata si uniscono efficacemente in un true crime avvincente.

Infatti, se da una parte la dimensione del documentario è saldamente ancorata a testimonianze dei protagonisti intervistati e alla ricostruzione storica dell’accaduto, dall’altra il film rientra nella sfera del genere del thriller e dell’horror attraverso la presenza di scene recitate che vogliono trasmettere un forte senso di suspense e angoscia.

La ricerca di Jacoba Ballard, di cosa parla Our Father

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È Jacoba Ballard a iniziare il racconto in Our Father, documentario diretto da Lucie Jourdan disponibile su Netflix dall’11 maggio, ricordando di quando crescendo si sentiva (e vedeva) diversa dal resto della propria famiglia.

Scopre allora che per il suo concepimento i genitori si rivolsero al dottor Donald Cline, rinomato ginecologo di Indianapolis specializzato in cure per la fertilità. Spinta da un desiderio di appartenenza e dalla volontà di scoprire se avesse fratelli dallo stesso donatore, Jacoba si rivolge al medico stesso, che tuttavia non fornisce le risposte che cerca e le intima di non indagare ulteriormente.

Finora, la figura del dottor Cline è delineata dalle sue ex pazienti e da alcuni dei suoi collaboratori, Jan Shore, infermiera che ha lavorato al suo fianco per tredici anni, e il dottor Robert Colver, suo ex socio. Donald Cline è riconosciuto e stimato a livello professionale e personale, è un membro distinto della sua parrocchia, è un padre di famiglia e le sue ricerche sulla fertilità portano a pratiche innovative per quegli anni, il suo tasso di successo è altissimo.

Parallelamente al ritratto del dottor Cline, la ricerca di Jacoba non si arresta e la donna si registra sul sito 23andme, che permette di ricostruire il proprio albero genealogico. Il sito rivela una verità sconvolgente che fa crollare le certezze di molte persone. Jacoba scopre di avere sette fratelli, nati dall’inseminazione effettuata con campioni del suo stesso donatore, e le corrispondenze continuano ad aumentare. 

Tutto l’orrore si svela mentre la conta dei fratelli cresce spaventosamente e la verità emerge: il donatore è il dottor Cline e tutto questo avviene all’insaputa delle pazienti stesse, spesso convinte che a donare fossero i loro mariti.

Un documentario che resta in superficie

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Il documentario sfiora più temi: l’etica e la deontologia – un medico che mette in atto un gravissimo abuso sfruttando la posizione di vulnerabilità delle pazienti ignare –, la religione – tematica già dichiarata nel titolo Our Father, Padre Nostro appunto, e in seguito nell’allusione a una setta il cui scopo era quello di riprodursi quanto più possibile per evitare ‘l’invasione etnica’ –  ed infine il confine sottile tra legalità e illegalità. Si può parlare di stupro se non è avvenuta una vera e propria violenza fisica? Che tipo di reato ha commesso Donald Cline?

Nel toccare tematiche complesse, tuttavia, sembra che la narrazione rimanga in superficie e tralasci spunti fondamentali di approfondimento a favore del racconto del dolore delle persone coinvolte che, nonostante costituisca il fulcro del racconto, viene esibito in maniera a tratti ripetitiva. Si ha così l’impressione che alcune scelte di regia – come quella delle scene finzionali di ricostruzione recitata da attori – abbiano sottratto preziosi spazi di indagine e approfondimento.


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Nata e cresciuta a Milano, laureata in lettere ed editoria, appassionata e lavoratrice del cinema. Trovo nel documentario in tutte le sue forme e modalità il mezzo ideale per rappresentare, conoscere e riflettere sulla realtà.

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