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PRINCESS

Princess, l’Italia di Venezia79 esordisce con una fiaba sul crudele quotidiano

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7 minuti di lettura

È Princess di Roberto De Paolis a inaugurare la sezione Orizzonti nella prima giornata della 79esima edizione del Festival del Cinema di Venezia. Cinque anni dopo dal primo lungometraggio Cuori Puri, De Paolis riconferma la sua inclinazione all’ascolto di chi vive ai margini della società. Tutti devono vedere ciò che accade e così Venezia posiziona nella prima giornata di Mostra un film di critica sociale che parla di prostituzione, di clandestine, di colore e dell’inefficacia delle norme che disciplinano l’immigrazione in Italia.

Ai bordi di una favola

Princess NPC Magazine

Pamela, Isabella, Giulia, Princess: nomi diversi e una sola donna a incarnarli tutti. A volte, per proteggere la parte più vera di noi stessi basta cambiare nome, altre volte ci illudiamo soltanto che sia così. All’interno di un registro visivo legato ad alcuni elementi favolistici prende vita una storia come tante, quella della prostituzione incentivata dalla lentezza dei procedimenti burocratici. Volpi, cavalli bianchi e riti magici si inseriscono in un contesto che è la contraddizione esatta di tutto ciò che concerne la sfera del fiabesco e del rassicurante mondo delle principesse.

Princess (Glory Kevin) è una giovane donna nigeriana che offre agli uomini, in cambio di pochi euro, un’identità temporanea e straordinariamente falsa. Princess concede agli uomini prestazioni sessuali senza lasciar loro il proprio corpo. È lei stessa a confidare alla sua amica di aver preso parte ad un rito sciamano che le impedisce di provare dolore durante i rapporti poiché ha fatto uno scambio di corpo. I dialoghi non lasciano immaginare che lei sia in qualche modo avvilita della sua professione, ma il suo corpo è lì e vive l’abuso di una vita che non avrebbe mai desiderato. A dircelo sono le lunghe sequenze che indugiano sullo sguardo perso di una giovane donna che avrebbe voluto essere una principessa, ma invece l’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio.

La metafora del bosco

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Siamo in una pineta che, come un labirinto, sfida gli uomini che decidono di addentrarsi. La sola che riesce a muoversi con grazia e coscienza tra gli alberi è proprio la giovane Princess. Nel bosco gli uomini si perdono e solo la giovane clandestina sembra riuscire a trovare sempre il sentiero che la conduce alla sopravvivenza. Come un animale dei boschi, Princess fiuta i soldi, infatti è nella pineta che avvengono la maggior parte degli incontri carnali che le possono permettere di assicurarsi la cena. Uno spazio altro, fatto per cercare prede e concedersi agli istinti vitali, un bosco che come un balsamo lenisce le ferite di un mondo sempre più consumato dalla mancanza di empatia. La culla è la madre Terra che accoglie le figlie, le sfama e le accarezza.

Princess e la concessione degli spazi narrativi

Con il sostegno di Piam Onlus (Progetto Integrazione Accoglienza Migranti), Roberto De Paolis riesce a mettere in piedi un’opera che si sgancia completamente da ogni intento inquisitore lasciando che siano proprio le vittime della strada a dare forma al racconto.

Questo progetto nasce da una riflessione fatta dopo aver visto molti film che, negli ultimi tempi, hanno avuto al centro varie storie sugli immigrati, film che il più delle volte avevano un punto di vista molto personale da parte degli autori, come se un gruppo di lavoro italiano tentasse di scrutare quel mondo. Noi abbiamo invece provato a fare un film attraverso gli occhi di una ragazza immigrata, tentando quindi di ribaltare la prospettiva, le forze in gioco”.

Concessione degli spazi narrativi, è su questo punto che si concentra il movimento femminile contemporaneo. Infatti, nonostante quella delle prostitute (vere vittime di tratta) sia soltanto una collaborazione con il regista, l’obiettivo di ricreare l’immagine più verosimigliante possibile alla condizione del mercato del sesso delle donne immigrate riesce effettivamente a centrare il punto. In Princess la pornograficizzazione della vittima viene meno e gli unici carnefici diventano lo stato e le difficoltà per i clandestini nel conseguimento dei documenti necessari per l’ottenimento di un lavoro.

Partendo dal presupposto che il feminist sex wars sia ancora centrale nel dibattito contemporaneo femminista, Princess riesce a restituire con una certa naturalezza, la sensazione che la prostituzione possa rifuggire dallo stigma sociale da cui è ancora contaminata. A dircelo, le immagini felici di giovani donne che danzano al ritmo di musica, consapevoli che il sex working non possa definirle come esseri sfruttabili.

Ostia non è Los Angeles

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Quando la linea di confine che divide la dignità dal consenso si fa sempre più sottile è il momento di tagliare la corda. Di sbagliato nella professione della prostituzione non c’è proprio nulla, sono ancora le regole sociali a sancire la ripugnanza del sesso a pagamento, di errato c’è la concezione che il pagamento di una prestazione sessuale dia il libero accesso anche ai limiti del consenso di chi vende. Ed è qui che secondo noi De Paolis coglie il nucleo vitale di un discorso più ampio: Princess finisce quando la libertà morale viene meno.

Questo non è Pretty Woman, non siamo a Los Angeles e non c’è il paternalismo degli anni novanta di Walt Disney a snodare la trama. Siamo a Ostia e una donna nera deve contare esclusivamente su sé stessa per diventare Princess in un contesto in cui la burocrazia è lenta ed estremamente inefficace. Princess però, sembra pronta a spogliarsi di tutte le identità create per gli altri e decisa a sganciare le zavorre di una vita fatta di niente, per cercare più in là, un regno dove sentirsi principessa.


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