Il 28 febbraio del 1975 usciva sul grande schermo Professione: reporter di Michelangelo Antonioni. A cinquant’anni dalla sua uscita, Professione: reporter (The Passenger, in originale) rimane un’opera preziosamente complessa e attraversata da suggestioni che non hanno ancora perso la loro intensità: tra scelte di racconto che sfidano la convenzione e ambigue rappresentazioni dei suoi personaggi, si conferma come un’opera cinematografica di straordinaria profondità.
Professione: reporter, la fuga dall’identità e la ricerca di senso
Il protagonista, David Locke (interpretato da Jack Nicholson), è un giornalista occupato in un reportage in Africa. In un inizio ricolmo di silenzi, caldo torrido e sudore, David scopre il cadavere di un uomo da poco conosciuto, Robertson (Charles Mulvelhill). In una sorta di taciuto flusso di coscienza, David decide di assumerne l’identità, modificando i passaporti, indossando i suoi abiti, prendendo i suoi documenti. Questo gesto radicale e, volendo, di pirandelliano abbandono della propria identità, rappresenta una fuga dalla propria esistenza insoddisfacente e una ricerca di un nuovo significato.
Tuttavia, questa nuova identità lo conduce in un dispersivo intreccio di situazioni di cui è più che altro vittima, soggetto passivo di eventi che non riesce ad afferrare a pieno, né tantomeno a controllare. Il rigetto di un’identità passata in virtù di un rinnovamento culmina piuttosto nella consapevolezza di un vano tentativo, di un’illusorietà del cambiamento identitario come soluzione ai propri conflitti interiori. Ne consegue una straniante alienazione che astrae i personaggi dal contesto, l’azione dalla sua motivazione e rilega il soggetto ai margini di una serie di eventi che avvengono nonostante tutto.
Professione: reporter, la forma cinematografica e la dimensione scopica
Se senza dubbio il tema dell’identità, dell’alienazione della modernità – fatta di non-luoghi (aeroporti, hotel, …) – e di un certo distacco emotivo sono ricorrenze tipiche del cinema di Antonioni, Professione: reporter è anche, o forse sopratutto, un film che parla della sua forma e che fa dello sguardo non solo il vettore di un significato, ma anche un’istanza che vive di un proprio senso ultimo. La wondering camera di Antonioni non si limita a seguire passivamente i personaggi, ma esplora autonomamente lo spazio, segue le intuizioni, si libera dall’azione e dall’intreccio e manifesta una sorta di propria vitalità, che non è altro che il riflesso di una soggettività, quella dell’autore.
Se lo sguardo è svincolato dalla sua natura narrativa, la libertà che si concede gli permette anche di fare suggestioni, e quindi di suggerire: è il caso di una sequenza nella prima parte del film, in cui la macchina da presa, ancorata sul personaggio di Nicholson, si stacca per soffermarsi e muoversi intorno alla figura sconosciuta di Marie Schneider; il fatto rilevante è che in quel presente narrativo il suo personaggio non ha alcuna importanza nell’intreccio, ma l’assumerà solo molto dopo, quando Nicholson la incontrerà nuovamente a Barcellona.
I dispositivi di registrazione in Professione: reporter
In Professione: reporter proliferano dispositivi di registrazione, sia letterali che metaforici, che sottolineano la dimensione dialogica tra il mondo e lo sguardo che lo attraversa. Dapprima attraverso il nastro di un registratore che scorre e rivela un dialogo tra David Locke e Robertson, poi telecamere, schermi, televisioni.
Ma i dispositivi sono anche concettuali, come specchi, finestre, e attraverso semi-soggettive che interrogano l’atto del guardare: “What can you see?” chiede Nicholson a Schneider mentre la vediamo di spalle che guarda dalla finestra (in un posa di richiamo spettatoriale), o ancora, più tardi, Nicholson racconta la storia di un cieco che miracolosamente torna a vedere e poi finisce per suicidarsi. C’è un ritorno febbrile e ossessivo alla dimensione scopica e di osservazione del mondo, che mette costantemente in discussione la natura della realtà e della percezione.
Declinazioni di genere
Sebbene la trama possa essere associata a un poliziesco o a un thriller, Professione: Reporter in realtà abbandona presto le convenzioni del genere concentrandosi più sui personaggi e sul mondo che li circonda piuttosto che sull’evoluzione della detection. L’orizzonte d’attesa dello spettatore diventa il bersaglio prediletto di una storia che, oltre alle fuoriuscite stilistiche di cui si è discusso poco sopra, adotta anche soluzioni di racconto alternative.
Un caso interessante si dispiega all’inizio del film: l’entrata nel flashback che riporta un dialogo tra Locke e Robertson non è segnata da marcatori codificati, bensì avviene nell’arco dello stesso piano-sequenza, che senza soluzione di continuità passa dal presente narrativo di Nicholson alla scrivania, al ricordo di quel dialogo sul terrazzo, con una panoramica che sembra quasi segnare un percorso a ritroso nel tempo.
Il piano-sequenza finale in Professione: reporter e la libertà dello sguardo
Professione: reporter culmina in un celebre piano-sequenza di sette minuti, in cui la macchina da presa si muove liberamente nello spazio, lasciando la morte del protagonista fuori campo e concentrandosi sull’ambiente, sui personaggi di contorno e creando una tensione inerte irresistibile. Poco più in là, nel fuoricampo irraggiungibile di Nicholson si risolve la sua storia e allo spettatore è concesso solo un piccolo sguardo, ritornando con una sorta di ciclicità a quella posa mortale in cui inizialmente giaceva Robertson.
Come suggeriva Seymour Chatman, forse quell’ultima inquadratura sull’Hotel da La Gloria è il segno che quello sguardo è finalmente libero dalla storia di Robertson/Locke.
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