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Film sulla dipendenza

Quattro buone giornate, solo un altro film sulla dipendenza. Perché questo genere non funziona?

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15 minuti di lettura

Quattro buone giornate è l’ultimo film del regista Rodrigo Garcia tratto dall’articolo How’s Amanda? A Story of Truth, Lies and an American Addiction pubblicato sul Washington Post nel 2016, scritto dal Premio Pulitzer Eli Saslow che insieme a Garcia si è occupato anche della sceneggiatura del film.

Quattro buone giornate è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2020 ed è ora disponibile in Italia su Sky.

Una storia di droga, dipendenza e bugie

Quattro buone giornate film sky

Quattro buone giornate racconta la storia di Deb (Glen Close) e di sua figlia Molly (Mila Kunis) tossicodipendente da 11 anni. Un giorno Molly si presenta alla porta della madre implorandola di farla entrare e aiutarla a disintossicarsi, questo sarebbe il quindicesimo tentativo da parte della ragazza, è quindi comprensibile lo scetticismo mostrato da Deb che è ormai arrivata al punto di aver capito che tutto quello che può fare per la figlia è inutile.

Tuttavia cede e le presta soccorso portandola in una clinica di disintossicazione e, alla fine dei tre giorni di soggiorno, le viene proposto il Naltrexone, un farmaco antagonista degli oppiacei che ne elimina gli effetti, ma per potersi sottoporre a questa cura deve rimanere sobria per altri quattro giorni. È in quel lasso di tempo che si sviluppa Quattro buone giornate, mostrandoci i sintomi dell’astinenza di Molly, indagando le vere ragioni della sua assuefazione alle droghe, il rapporto con la madre, con l’ex marito, coi figli, con la vita reale.

Solo un altro film che parla di dipendenza

Quattro buone giornate sky

Non manca nulla a Quattro buone giornate il cui tema centrale è la dipendenza da eroina e il tentativo di uscirne visto attraverso il rapporto difficile, quasi impossibile, di una madre e sua figlia: c’è la frustrazione dei famigliari della persona tossicodipendente, la loro impossibilità a compiere una qualsiasi azione per poter aiutare o salvare l’altro, c’è la delusione, il dolore, il nichilismo, la rabbia, lo schifo dell’eroina, ci sono tutti i vari step, la speranza, la rassegnazione, l’indifferenza, le bugie, i furti, la prostituzione.

Non c’è molto altro da dire riguardo Quattro buone giornate che risulta essere solo un altro film sulla dipendenza, uno tra i tanti. Tutti questi prodotti propongono uno sguardo diverso sul mondo della dipendenza, ma tutti finiscono al medesimo modo, con la morte del protagonista o con il suo ravvedimento, la sua uscita dall’incubo dell’eroina, la sua salvezza. In entrambi i casi è chiaro che il messaggio sia calcare la mano su quanto possa essere pericolosa la droga e che la conseguenza diretta è una morte dolorosa, se al contrario il protagonista si salva, è una salvezza miracolosa.

Tutte queste storie risultano in definitiva sterili, se la tematica è importante, ed è fondamentale che se ne parli, questi film sono, però, inefficaci allo scopo. Certo ci sentiamo toccati dall’impotenza provata da Deb, dalla frustrazione nel voler aiutare la figlia e l’impossibilità a farlo, dal rendersi conto di quanto ogni tentativo sia vano. L’aspetto estetico attribuito a Mila Kunis è in questo film abbastanza adeguato, molto di più rispetto ad altri casi in cui la bruttezza e il disfacimento del corpo del tossicodipendente non veniva rappresentata ma si perpetuava uno stereotipo di bello e dannato che è quanto più lontano dalla realtà (ed è un altro dei problemi legati alla rappresentazione della dipendenza sul grande schermo).

Se possiamo riconoscere alcuni elementi positivi e ben riusciti in Quattro buone giornate per esempio le interpretazioni lodevoli di Glen Close e Mila Kunis, non bastano però a elevare il film o a dare nuovo slancio al genere a cui appartiene. Le due attrici offrono un’ottima prova, Mila Kunis si distanzia dalle sue interpretazioni da commedia offrendo la rappresentazione veritiera di una ragazza tossicodipendente con tutto il suo nervosismo, il suo essere sfuggente, bugiarda e manipolatrice; Glen Close riesce a far trasparire il dolore e la rabbia di una madre inerme di fronte alle suppliche della figlia, comunica perfettamente il suo essere divisa emotivamente.

four good days

Ma al di là di questo Quattro buone giornate sembra solo un altro tentativo di avvicinarsi a queste tematiche da parte del regista che però non riesce a trovare un soddisfacente compimento. È una storia già vista, anche la prospettiva adottata si ritrova facilmente in altri prodotti cinematografici, non c’è coinvolgimento nel racconto, ogni approccio sembra sempre troppo distaccato, ogni espediente troppo pensato e utile alla storia ma lontano da come avrebbe potuto o dovuto essere nella realtà. È un problema comune alla maggior parte dei film dedicati a storie di dipendenza, tutti o quasi risultano vacui e inutili. Ma perché?

La dipendenza al cinema

Beautiful boys
Beautiful boy

Seppur trattata in maniera diversa e osservata da diversi punti di vista questa tematica portata al cinema appare noiosa e ripetitiva. Non tutti i film sull’argomento sono uguali, certo, e i loro stessi intenti sono differenti, ma la sensazione è che visto uno si siano visti tutti.

Possiamo dire che i film con tema la dipendenza si dividono in due gruppi principali: quelli che fanno un’operazione di estetizzazione della condizione e ciò che risulta è una sorta di fascinazione per l’eroina e la situazione di tossicodipendenza e quelli che invece puntano su un pietismo e un dolore facili ma risultano poveri di contenuto perché si rifanno in maniera troppo esagerata a cliché e stereotipizzazioni.

È il caso, per esempio, del film del 2018 Beautiful boy, il film forse più vicino a Quattro buone giornate; Felix Van Groeningen come Rodrigo Garcia vuole parlare sopratutto del rapporto tra un genitore (questa volta il padre) e il figlio tossicodipendente e anche questo film è tratto da una storia reale. Il problema maggiore di Beautiful boy è l’approccio troppo convenzionale alla questione e una superficialità generale nella rappresentazione.

Il protagonista è Timothée Chalamet che oltre a rimanere bello e affascinante per tutta la durata del film, anche nei momenti di maggior dipendenza dall’eroina, non viene mai indagato seriamente tanto che la sua dipendenza appare quasi come un capriccio di un ragazzino annoiato che vuole emulare i suoi miti, Charles Bukowski e Kurt Cobain.

Il regista decide di adottare il punto di vista del padre, un genitore che vuole capire le ragioni che spingono il figlio a fare uso di droga e le sensazioni che questa gli dà, ma anche questo aspetto, che poteva essere stimolante perché raramente affrontato, non viene approfondito per concentrarsi invece sulla messa in scena del protagonista in situazioni stereotipate del genere. Beautiful boy, Quattro buone giornate e i film di questo gruppo, risultano inefficaci perché ripetitivi.

Le situazioni che queste persone, queste famiglie devono affrontare sono sempre le stesse, un primo tentativo di disintossicazione, la fiducia iniziale, le successive ricadute, toccare il fondo, arrivare al livello più basso, la perdita di fiducia e così via. Inoltre sono film destinati al grande pubblico, devono quindi per forza di cose essere edulcorati e romanticizzati per non apparire eccessivamente controversi e problematici.

Trainspotting
Trainspotting

Dall’altra parte c’è il gruppo già citato che spesso scade in una fascinazione dell’eroina, questo a causa di una maniera cinematografica e un formalismo spinto che esaltano i tratti apparentemente più seducenti dalla condizione del tossicodipendente, l’esempio maggiore tra tutti è sicuramente Trainspotting (1996), film culto degli anni ‘90 per la regia di Danny Boyle adattato dal romanzo di Irvine Welsh.

Fin dal monologo iniziale, recitato dal protagonista Ewan McGregor, la percezione è quella di un’esaltazione della scelta dell’eroina come opposizione a una vita monotona e succube del capitalismo, una vita mediocre e silente. Non c’è menzogna in questo discorso, molto spesso tra le ragioni dell’uso di sostanze stupefacenti c’è un desiderio di fuga da una vita troppo problematica o insoddisfacente, una ricerca spasmodica di qualcos’altro, più emozioni, o semplicemente un benessere emotivo che la quotidianità non può dare.

Film come Trainspotting pur ricorrendo a espedienti formali a volte esagerati e ricreando situazioni assurde, appaiono però forse più convincenti dei film precedentemente nominati, anche se perpetuano anch’essi uno stereotipo problematico che proprio negli anni ‘90 è stato alimentato da quella moda passeggera denominata heroin chic che era possibile riscontrare nel cinema, nella moda, nella fotografia, nella letteratura.

Requiem for a dream
Requiem for a dream

Il punto di arrivo estremo di questo tipo di prodotti può essere rappresentato da un film come Requiem for a dream (2000) di Darren Aronofsky che del formalismo fa la sua caratteristica principale. Il nichilismo e il disagio questa volta assorbono l’intera società, nessuno si salva e tutti sono dipendenti da qualcosa.

È un discorso interessante quello affrontato da Aronofsky con il parallelismo tra la dipendenza da eroina del figlio Jared Leto e la dipendenza dalla televisione prima e dalle pillole dimagranti poi della madre Ellen Burstyn, entrambi spinti da una solitudine, un disagio, una mancanza che informa di sé l’intera società.

L’eccesso di stile, di manierismi in Requiem for a dream prevale forse sulla tematica e il finale catastrofico appare forse addirittura esagerato, ma l’intenzione e la critica di Aronofsky arriva chiara, è la società a essere marcia a propagandare standard impossibili a cui le persone senza mezzi rispondono aggrappandosi a quello che incontrano, a quello che possono.

Un film che racconta bene la dipendenza

Amore tossico
Amore tossico

Vorremmo, per finire, proporre un ultimo esempio, minore per localizzazione geografica e risonanza mediatica, ma forse uno dei più incisivi per come affronta la tematica. Non ricorrendo a manierismi di sorta, a romanticizzazioni, idealizzazioni o a un pietismo marcato l’esempio del cinema di Claudio Caligari è forse tra tutti il più efficace, segnato com’è da un realismo crudo e senza fronzoli ci ridà la fotografia, il ritratto, di una provincia italiana che è in sé tutte le province italiane, in cui il degrado, la miseria, la povertà, regnano nelle vite di ragazzi che sono sicuramente discendenti dei protagonisti pasoliniani e con la droga e la miseria hanno molto da spartire.

Sia Amore tossico (1983) che Non essere cattivo (2015) sono due tra i film più riusciti dell’intero genere cinematografico perché non si rifanno a nessuna struttura precostruita e riscontrabile in altri prodotti, ma raccontano storie vere, reali, tangibili. Sicuramente un valore aggiunto è possibile attribuirlo ad Amore tossico soprattutto per il lungo e bel lavoro fatto da Caligari in collaborazione con il sociologo Guido Blumir e l’apporto unico degli interpreti, tutti non professionisti che vivevano o avevano vissuto situazioni di droga.

Una sorta di neoralismo quello di Caligari, una riscoperta e una rilettura personale di questa pratica, che è però tra le più efficaci per parlare di una tematica scomoda, controversa e difficile come la dipendenza da sostanze stupefacenti.


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Chiara Cazzaniga, amante dell'arte in ogni sua forma, cinema, libri, musica, fotografia e di tutto ciò che racconta qualcosa e regala emozioni.
È in perenne conflitto con la provincia in cui vive, nel frattempo sogna il rumore della città e ferma immagini accompagnandole a parole confuse.
Ha difficoltà a parlare chiaramente di sé e nelle foto non sorride mai.

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