Ritorno a Seoul è un film spezzato continuamente, veleggiato e sintonizzato sull’emotività rapsodica della sua protagonista. Davy Chou accarezza le sfere ricettive dello spettatore con la delicatezza di chi sa fare del minimalismo universalità sensibile. Potente, viscerale, irrisolta e irreversibilmente alienata.
Il secondo lavoro del regista franco-cambogiano, al cinema dall’11 maggio, si edifica su un’apparente difficoltà empatica. Posiziona al suo centro, in quel punto sempre instabile e sempre mobile, una ragazza compressa, sfuggente e sfrontata che tenta in tutti i modi di esiliarci fuori da sé, in un processo di allontanamento circolare che rafforza quanto messo in scena.
Ritorno a Seoul, il senso in cinque minuti
Ritorno a Seoul si catapulta nella storia in medias res, dentro quel ritorno, o approdo iniziatico, nella Seoul che ha dato i natali alla protagonista: Frédérique Benoît (Park Ji-Min), venticinquenne adottata dalla Francia e da una famiglia apparentemente accudente, premurosa e attenta. Apparentemente, perché della vita francese ci sarà sempre detto poco, emarginata in ellissi e inferenze sulla sua identità frammentata.
Freddie (così si presenta a Seoul) dice di essere in Corea per caso, di non sapere quanto si fermerà, di non voler rintracciare i genitori biologici; che in quel luogo non tornerà più, che se ne andrà, che non resterà. E poi fa tutto il contrario. È l’avvio di uno schema febbrile che si stagna nella negazione di sé come unica forma di difesa da una vita in cui non si sente voluta abbastanza.
Davy Chou denuda tutto fin dal prima sequenza, in quel locale in cui Freddie infrange le tradizioni, sfida il costume, intesse relazioni occasionali, orchestra sintagmaticamente quelle degli altri, si dà a un’alterità che ha l’ossatura dell’estraneità, dell’asettico e della soppressione sentimentale.
Eppure Chou indugia sullo sguardo che osserva dall’esterno qualcosa di cui vorrebbe sentirsi parte; la posiziona sola in inquadrature incomplete, controcampi di spazi abitati da coppie, gruppi, insiemi di persone. Ne enfatizza lo straniamento nel movimento frenetico tra gli ambienti, nella strettezza dei primissimi piani, nel divario linguistico e comunicativo, nelle focali lunghe che la sagomano fuori da uno sfondo con cui mai riuscirà a fondersi.
È già tutto davanti ai nostri occhi, nei primi minuti di un film che vedrà la ragazza conoscere il padre (Oh Kwang-rok), respingerlo, rimanere a Seoul, rientrare in Francia, farsi una vita, disfarla, tornare, incontrare la madre (Cho-woo Choi) e disperdersi ancora.
L’insanabilità del trauma
Narrativamente, Ritorno a Seoul racconta circa otto anni nella vita di Freddie, muovendosi tra i primi tentativi di legame con il padre e la sua famiglia, il conseguente rigetto, l’attesa di una risposta da parte della madre e le implicazioni di tutte le stratificazioni familiari sulla vita personale della giovane: costantemente squarciata da un dolore compresso, che viene a galla in culmini emotivi di profondità sofferta, subito avviliti dalla necessità di abbandonarsi alla leggerezza, l’irresponsabilità sensibile, il divertimento, la frenesia e il rifiuto della consapevolezza di sé.
L’arrivo in Corea è per la protagonista un’immersione costrittiva in una cultura che sembra più volte volerla inghiottire nel tentativo disperato di recuperare il tempo perso. Il ricordo, l’infanzia e la stessa identità della donna sono traccia evanescente di una vita segnata dall’assenza. Entriamo nella casa della famiglia paterna attraverso una fotografia che li ritrae tutti assieme e a cui margini, piccoli e imbronciati, è appoggiata l’immagine recente della figlia ritrovata, relegata in quell’unico e marginale spazio che ha il sapore malinconico (e soggettivo) dell’intrusione.
Il padre, annegato emotivamente nella dipendenza dall’alcol, la vorrebbe nella sua vita in Corea. Vorrebbe che trovasse marito, che imparasse la lingua e ne rispettasse i costumi. Così la tampina di messaggi, prova come può a volerle bene, vomitandole addosso il suo dolore e annaspando nella speranza di recuperare le conseguenze di una decisione necessaria, compiuta per il bene di lei, sulla quale chiede di esentare il giudizio. A riprova di un’empatia esile, troppo focalizzata sulla propria sofferenza per comprendere davvero quella dell’altro, quella di chi quelle scelte le ha potute soltanto subire. Giuste o sbagliate che fossero.
Nel frattempo Freddie avanza soffocante, sempre più a fondo, nell’incapacità di aprirsi al legame emotivo, ampliando quelle distanze che si misurano nell’impossibilità di sanare un trauma che l’ha modellata come persona, contornandone indole e sentimenti.
Quindi fa l’unica cosa che è in grado di fare: respingere, scappare, reprimere. Difficile percorrere strada diversa se non ci si è concessi di conoscere altro, difficile non progredire nell’isolamento quando ciò di cui ci si fida è soltanto, essenzialmente, una viscerale solitudine. Rimarcata, mortificata e pugnalata dalla persistente mancanza di una madre che non vuole farsi rintracciare, amputando ogni possibilità di affidarsi all’altro.
Sullo sfondo, sempre fuori fuoco, una Corea impenetrabile e inafferrabile, pulsione ipnotica per una ragazza che prova ad appartenere alle proprie radici e ribellione atavica verso chi l’ha abbandonata: la madrepatria, la madre, il ricordo d’infanzia sfocato in una fotografia che è prima di tutto una menzogna.
Ritorno a Seoul è un film sintonizzato sulla sua protagonista
Dentro l’alienazione trasfigurante in cui vive Freddie, l’unico angolo di armonizzazione con la sua interiorità è abitato dalla sensibilità registica. Sintonizzata con i tumulti più inabissati della sua emotività, Ritorno a Seoul è un’esplorazione delicata e introspettiva di un naufragio identitario che non arriverà mai a toccare la superficie. Chou la ritaglia spesso in mezzo a uno spazio parcellizzato, isolata e vorace nello sgusciamento continuo tra ambienti antistanti, calco dello sradicamento culturale della sua protagonista. Nelle inquadrature convivono luoghi intervallati da porte, pareti, usci e confini: la giovane si dimena spasmodica tra le estremità, sconfinando senza pace da una parte all’altra e arrancando nel tentativo di sostare in quel punto di equilibrio, centrale, che per lei rimarrà sempre irrimediabilmente spezzato.
Nel corso della parentesi più allucinogena della sua vita, i toni si tingono dei colori dell’underground che la ospita, virando su quel neon che la estrania dal reale e immergendola in un onirismo quasi accecante. Poi vacilla in bilico negli anni dell’apparente stabilità: Freddie trova un lavoro, un compagno e la forza di conceder(si) un secondo tentativo con il padre. La messa in scena la ri-centra, mostrandola, ora accompagnata, in posti in cui l’avevamo già conosciuta sola.
Ma l’illusione è precaria, divorata dalla voragine di un dolore mai superato. E allora basta uno schiocco di dita per tornare ad essere asciutta, ostile, vulnerabile. Desiderosa di essere voluta, nel tentativo effimero di colmare la propria solitudine, ma poi refrattaria alla solidità emotiva, più volte calpestata dall’atteggiamento tipico di chi si sente intitolato a far soffrire gli altri per compensare le proprie mancanze.
Ritorno a Seoul sceglie di plasmare la materia da questa prospettiva, non schierandosi, non mistificando ma semplicemente osservando. E nell’osservato c’è anche la scelta di Freddie di non aiutarsi, evitando il conflitto con se stessa e rifugiandosi in un involucro sicuro ma auto-sabotante. Park Ji-Min lavora con zelo nel dare il volto alla protagonista, asciugando con naturalismo un’interpretazione magistrale di minimalismo e microespressioni emotive.
Di prossemica ed espressività è fatta la comunicazione con suo padre, di abbandono al pianto l’unico incontro con la madre, di sensibile coinvolgimento quello con lo spettatore. Come con ogni persona della sua vita, Freddie tenta di buttare fuori anche noi: è rognosa, scostante, spigolosa e il più delle volte insensibile. Ma la scelta di chi guarda richiede quel tipo di responsabilità empatica di cui spesso sembrano difettare i personaggi.
E allora, forse, a quella persona triste sarebbe bello poter tendere la mano, senza pretendere di salvarla ma accogliendola silenziosamente nel calore emotivo di chi sa di essere, per un attimo, visto abbastanza.
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