Ghostface è un’opera d’arte, la risultante delle paure collettive più terrificanti, la summa di archetipi che, nonostante il privilegio temporale, falliscono la prova dello stupore generazionale. A nutrire la sua aura, il pessimismo munchiano – ritratto ne l’Urlo – che con Scream Craven ha ricondotto ad un malessere sociale, politico, culturale, una sensazione avvilente di perfetto e mendace ottimismo con cui l’America si faceva scudo a cavallo del nuovo millennio.
Se la fallibilità corporea, la disorganizzazione, il mancato tempismo hanno fatto di Ghostface un male vincibile, l’onnipresenza, l’imprevedibilità, la brutalità lo hanno reso invece una minaccia possibile, un’ossessione imperitura, al buio o in piena luce. Ghostface non è mai stato uno dei suoi volti umani, imperfetti, invasati, convertiti al sangue da moventi terreni. A terrorizzare era la sua voce, distorta, affilata, invadente. Soffocava gli ignari, eccitava i coscienti, e gli esperti sussultavano, in bilico tra il tremens e il fascinans.
Dietro la maschera c’è sempre stato il suo demiurgo, artigiano del perturbante: origo del massacro, angelo vendicatore di una cinema ristagnante e disadorno, Wes Craven piegò il modello alla sua volontà, sfigurò gli errori di un passato glorioso, eternizzando l’unica possibilità di sopravvivenza: le regole.
Scream (1996): “Sesso uguale morte”
- Non bisogna mai copulare. Sesso=morte
- Mai bere o drogarsi. È peccato per estensione della regola n.1
- Non devi mai, in qualunque circostanza, dire “torno subito”, perché non si torna più.
In Scream (1996) conosciamo l’identità dell’assassino allo scadere della prima mezz’ora. A rivelarla, è Randy Meeks (Jamie Kennedy), il cinefilo appassionato di horror che nel corso della trilogia originale (1996, 1997, 2000) tenta di istruire la sua comitiva inesperta sui dettami del genere.
Il cervellone del gruppo è il copione narrante, la voce didascalica che procede secondo lo schema conosciuto, eppure nessuno, neanche lo spettatore, è disposto ad ascoltarlo, perché credergli vorrebbe dire sospendere l’incredulità. La semplicità è la prima regola, così come il millennio è il movente degli omicidi: è il preside Himbry (Henry Winkler) a dare voce al pensiero comune, al disprezzo per quella “generazione di tossici, ladri e prostitute” alimentati ad odio e intolleranza, emulazione e violento perbenismo.
Nel capitolo primordiale si decostruisce la morale costitutiva di genere immerso nel proibizionismo degli anni settanta, giocata sui temi del conflitto sessuale, la scoperta dell’altro, il piacere della carne. I giovani sono puniti per il loro ardore, un bisogno vitale che le convenzioni sociali puritane trasformano in un tabù lordo e abietto, da vendicare con la morte. Sidney Prescott (Neve Campbell) disarma il divieto sacrale, consuma un rapporto sessuale con il male stesso e gli sopravvive, inferendogli il colpo mortale. La final girl della nuova american way of life, l’antinomia della disciplina, è l’unica a sovvertire il canone. Ed è invincibile.
Scream (2022) – il requel: “Il movente è collegato al passato”
- Non fidarti dei fidanzati
- Il movente è collegato al passato
- Il killer si nasconde nella cerchia di amici della prima vittima
A venticinque anni dal primo capitolo della saga, il cinema ha assistito alla proliferazione di un nuovo genere di orrore, quello sofisticato, sottile, psicologico, semantico e patemico. L’omicidio non è più divertente, esiste sempre un movente e il più delle volte è sociale, politico o culturale. Babadook, Hereditary, Get Out sono diventati la norma, lo schema da seguire per confezionare un prodotto che restituisca dignità al genere, assolvendolo dall’iter meccanico e riproducibile del jumpscare artificioso.
Condizione d’esistenza in Scream 5 (2022) è la scelta di ominimia e di intenti: se il metacinema esplicativo del sequel e delle trilogie aveva trovato in Randy l’eredità dichiarativa di Craven, nel quinto capitolo il testimone passa a Mindy (Jasmin Savoy Brown), la nipote di Randy.
Il nuovo Ghostface sta girando un requel, un sequel che sebbene richiami l’attenzione sui protagonisti del passato, agisce per addizione discostandosi dall’ormai abusata declinazione dell’originale per restiruirle il tono trionfalistico degli esordi. L’opera d’arte di Walter Benjamin, riproducibile ad infinitum, trova diretta corrispondenza negli estremi tentativi di salvataggio di un franchise, manomesso nel suo valore artistico dal formalismo meccanico e dal protocollo politico.
“I totalitarismi utilizzano l’esperienza artistica come strumento di controllo delle masse”, teorizzava Benjamin nel saggio del 1936. Il capitolo del 2022, diretto da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett riscrive il proprio finale trasformandolo in incipit per assicurarsi la sopravvivenza, e affida al fruitore appassionato il destino di un genere.
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