Non avrei mai pensato di dirlo, ma sono d’accordo con Thierry Frémaux. Sono d’accordo con il direttore del Festival di Cannes. Sono d’accordo con colui che ha posto un veto ai film prodotti da Netflix. Sono d’accordo con colui che ha vietato i selfie sul red carpet. Questa volta, sono d’accordo con l’uomo che, pur essendo responsabile di uno dei più importanti Festival del cinema, ha dimostrato a più riprese di non essere sempre disposto ad aprirsi ai tempi che corrono. Sono d’accordo con Thierry Frémaux quando afferma che Cannes non può diventare un festival online. Le esatte parole dichiarate a Variety sono state ineccepibili: «cos’è un festival digitale? Una competizione digitale? Per quanto riguarda Cannes, per la sua anima, la sua storia, la sua efficienza, è un modello che non funzionerebbe». Parole che fanno da eco a quelle del direttore del Festival del Cinema di Venezia, Paolo Barbera, che ha escluso categoricamente un futuro Leone D’Oro consegnato via Skype (o Zoom, per seguire il trend). «Il Festival del Cinema di Venezia non può essere sostituito da un evento online».
Ha ragione Frémaux, ha ragione Barbera. Siamo seri, cos’è un festival digitale? Le grandi kermesse del cinema non sono semplici schermi a cui basta cambiare dimensione sino a farla coincidere con quella dei singoli computer degli accreditati; sono luoghi in cui l’arte è presenza, in cui il pubblico si manifesta e ricorda di non essere un utente passivo agli imperanti algoritmi. Il Festival di Cannes e il Festival di Venezia sono le masse che li popolano. Ci si trova, e si realizza il Cinema. I pubblici sparsi sul web, ridotti all’osso nella dispersione delle sale semi vuote di tutto il mondo, si compiono come reali solo qui, negli spazi temporanei e significativi dedicati al Cinema.
Se la sala si svuota da anni, i Festival al contrario si popolano, avvantaggiandosi della tanto dileggiata democratizzazione della critica (e la conseguente moltiplicazione di riviste), quanto di una volontà del pubblico e della critica di sentirsi parte di un processo presente.
Ragioniamo, senza berci passivamente l’ottimismo del futuro-digitale. Sono per Netflix, e in questo sono contro Fremaux. Così come sono a favore delle nuove forme di fruizione quotidiana dell’audiovisivo e dell’inevitabile accelerazione che questi processi stanno subendo nel lockdown globale. Eppure, non sarò mai per una Venezia77 online, così come per un Cannes a distanza di un click. Per sedimentare una cultura, certificare una tendenza, i Festival devono essere luoghi. Persino la realtà virtuale (a cui il magazine frammentirivista dedicò un lungo reportage proprio in occasione di Venezia76) richiede un luogo, pretende un festival, reclama uno spazio. Ecco, uno spazio. Quello spazio che non appartiene più alla sala, e che invece rinasce nei numerosi festival che ogni estate si riempiono e che hanno in Cannes e Venezia i propri punti di riferimento o rottura.
Ci saranno delle forme miste (che per altro già esistono) per fronteggiare l’emergenza che stiamo vivendo, sperimentazioni non lontane da quelle delle “mostre online”, ma infine si dovrà tornare lì, sul lido o in qualche strana location, a vivere un Cinema che esiste solo quando la scatola nera si apre e si scopre una piazza.
Foto in copertina di Alessandro Cavaggioni. Tutti i diritti riservati.
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