Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis tornano alle loro fughe d’amore e per amore, per far resistere la magia del racconto in mezzo alla maledizione del fango e dei suoi liquami, lì dove i miti colonizzano gli spazi e i corpi prima ancora delle mappe geografiche. Testa o croce? è l’ennesima straordinaria leggenda cinematografica ai margini della Storia e dei suoi generi, presentata al Festival di Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard e ora in sala dal 2 ottobre 2025 grazie a 01 Distribution.
Testa o croce?, cacciatori di taglie, ovvero di storie
Il leggendario Buffalo Bill Cody (John C. Reilly), cowboy e cantastorie, è giunto dall’America in una Roma rurale a cavallo del Novecento. Con il suo spettacolo itinerante di immagini e leggende, in quell’Italia da poco unificata, vende il sogno della frontiera, il mito di storie eterne oltreoceano che da sempre in poi ci affascineranno. Proprio lì, durante una gara di doma tra cowboy americani e butteri italiani, la giovane Rosa (Nadia Tereszkiewicz), imprigionata in un matrimonio violento e stretto come il suo ricco corsetto, si innamora di Santino (Alessandro Borghi), un inetto mandriano di grande ingenuità muscolare e vincitore di una di quelle sfide tutte corporali.
Dopo un omicidio a bruciapelo del signorotto locale, Rosa e Santino scappano via a cavallo, lui con la nuova identità di eroe fuorilegge dalle apparenti e involontarie movenze rivoluzionarie e lei come impavida vedova indipendente sulla via dell’emancipazione sociale. Insieme attraversano terre di ogni natura e fauna, con una taglia che pesa su Santino e Buffalo Bill che li segue magneticamente per cercare di appuntarne la storia sul suo quadernetto personale, non per denaro o spirito di giustizia, ma alla caccia assetata di racconto, di quel pezzo perfetto e definitivo che completi la sua sconfinata e cangiante mitologia.
Come nelle opere precedenti di Zoppis e Rigo de Righi (il primo folgorante esordio Re Granchio e i documentari Belva Nera e Il Solengo), anche in Testa o croce? quello a cui i due registi sono interessati sono infatti soprattutto le storie e le leggende di ere geologicamente diverse, di tempi e luoghi in cui ne riecheggiano infinite altre.
Anche in Testa o croce? rimane lo stesso incipit drammaturgico: qualcuno che racconta e da lì una matrioska di miti eterni che prende avvio, da un racconto tramandato all’altro, di storie dentro le storie e così rovistate e riformulate in eterno, in un triello di allucinazioni infinite, di ballate con strofe che cambiano continuamente tono e ritmo (a cui contribuiscono le sonorità battenti e rullanti della colonna sonora di Vittorio Giampietro), di ritornelli cantati che si accendono in improvvisi scarti comici ad allentare la corda prima di tenderla di nuovo daccapo.
Testa o croce?, oltre il western e le sue definizioni
Così quello che pare solo superficialmente un classico western all’italiana diventa una profonda riflessione sul genere stesso, sul come far esistere ancora nel presente un cinema innamorato della sua materia narrativa. Testa o croce? recupera infatti gli stilemi e i paradigmi più concettuali del western classico, soprattutto quel «motivo della soglia» come lo intendono i teorici dei media Thomas Elsaesser e Malte Hagener1, della frontiera come soggetto culturale che «collega e separa», un confine fondativo, un passaggio tra rituali e mitologie da attraversare e oltrepassare, alla conquista di qualcosa di più grande.
Ma Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi destrutturano queste convenzioni, le superano, le reinventano all’infinito: in Testa o croce? le frontiere non sono più solo quelle fisiche e geografiche, ma più genericamente quelle dell’immaginazione, alla soglia dell’immagine. Nel loro sguardo la violenza non rappresenta in questo senso solo il tramite per la conquista (o la fondazione) di una nazione2, di una battaglia dopo l’altra come nel film omonimo di Paul Thomas Anderson (in questi giorni in sala), ma è piuttosto la via univoca per continuare a raccontare (e rifondare quindi) avidamente ogni leggenda, che altrimenti, se non fosse rubata e raccontata, cesserebbe per sempre.
Così l’ubriacone protagonista di Re Granchio si appropriava a buon diritto dell’identità di un prete morente, prendendone gli abiti, il nome, per continuare a perseguire attraverso il suo taccuino le tracce mitologiche di un tesoro inestimabile agli estremi della Terra del Fuoco. Così è anche Buffalo Bill in Testa o croce?, un imbonitore armato delle sue storie, disposto a tutto pur di afferrarle ancora. Non solo il denaro o la gloria quindi, ma la leggenda stessa come origine e fine ultimo del ciclo di violenza. Per il bene del racconto, contro il male della sua fine.
I tanti generi che si susseguono in Testa o croce? (dal già citato filone western fino ai segmenti più apertamente surreali e illusionistici) non esistono infatti di per sé, non sono autonomi nella loro definizione, ma si creano di volta in volta a seconda di come si racconta una stessa storia dalle tante prospettive diverse, in un’etnografia che diventa anche dello sguardo: accelerare le attese, disallineare le parti, disarticolarle fino a disordinarle del tutto in un cinema possibile soltanto attraverso il cinema.
Testa o croce?, storia di un continente italiano
Ogni racconto in Testa o croce? interroga la genealogia delle immagini che ci hanno fondato, di una memoria nazionale che guardando l’America ha indagato se stessa, seminando immaginari, crogioli di eroi maschili invincibili, violenze ricorrenti, sistematiche e partecipate. «A volte bisogna fare cose terribili in nome del progresso». È uno scambio identitario non solo nel senso folkloristico di cappelli cuoiati, stivali speronati, pistole scoppiettanti trapiantate nel Lazio rurale, ma come riconoscimento di una comune radice mitopoietica, di brigantaggio e latifondi, patriarcati armati e giustizie sommarie, terre contese tra nuove leggi e vecchie consuetudini classiste radicate, in cui inventarsi sempre una frontiera ulteriore che non finisca mai, affinché anche il racconto derivato non giunga mai al suo termine.
Nel suo lancio d’amore verso l’ignoto («in culo al mondo» annunciava il secondo capitolo di Re Granchio), Rosa, che di Testa o croce? rappresenta anche il fulcro de-costruttivo essenziale, sogna ancora un’America diversa, un American Dream ideale e personale, alimentato in ogni dove dal superamento dei luoghi e topoi drammaturgici tradizionali. Il paesaggio italianissimo di Lazio e Maremma – con prati e campi sconfinati dai toni vermigli e crepuscolari, grotte nascoste che cadono a picco sul mare e paludi torbide e piovose in cui cacciare in giochi di specchi indomabili rane – sfuma così continuamente nei deliri d’amore verso un altrove favoloso, quasi favolistico.
Come nel romanzo metaletterario di William Goldman La Principessa Sposa – la storia di uno sceneggiatore che riscrive per il figlio, reinventandola con corsivi di commento, una fittizia fiaba popolare della sua infanzia – raccontare presuppone infatti scegliere i dettagli migliori, scivolare su quelli più noiosi, costruendo una storia diversa, più appassionante e piena di ironiche incursioni. È lo stesso mattatore William Goldman che ha scritto, tra le tante, la sceneggiatura premio Oscar di Butch Cassidy, sarcastico e malinconico anti-western su due anti-eroi disillusi (Paul Newman e Robert Redford) alla fine della loro era, che ci venivano introdotti, di nuovo non a caso, con la chiarissima didascalia iniziale «Quello che segue è quasi tutto vero».
Un principio di quasi verità che funziona perfettamente anche in Testa o croce?, perché permane la stessa vita traslitterata che continua, dopo tutti gli ipotetici finali perfetti, al di fuori dello schermo, nella nostra immaginazione, per quei luoghi, quelle tradizioni, quegli spazi mitologici prettamente italiani che guardano alla mescolanza barocca del Pentamerone di Giambattista Basile come all’inventiva surreale ma sempre realistica di Italo Calvino (nell’introduzione alla sua ampia curatela delle Fiabe italiane, Calvino scriveva come assioma della sua ricerca che anche «le fiabe sono vere»3).
Testa o croce?, alla ricerca della propria leggenda personale
Il senso di Testa o croce? è tutto ascrivibile infatti alla caratterizzazione che Zoppis e Rigo de Righi danno a Buffalo Bill, non un semplice cacciatore di taglie, ma un affabile e affabulatore demiurgo di storie, inattendibile come il miglior narratore postmoderno, capace di trasformare (manipolandolo) l’evento in spettacolo e lo spettacolo a sua volta in memoria collettiva da ereditare. «Tutto può trasformarsi in una grande storia» dice a mo’ di ammiccante slogan di vendita.
La sua caccia ai due amanti rappresenta infatti soprattutto la caccia a un finale degno di essere tramandato, di un West ipotetico che non coincide esattamente con un luogo preciso e confinato, ma che è costruito invece su un repertorio di gesti e pose costantemente inventate e narrate che contagiano, come una macchia irresistibile, chiunque incontrino al loro passaggio. Ma in Testa o croce? anche Rosa e Santino stessi non presentano natura differente, perché non fuggono soltanto da una colpa insanabile (com’era in fondo quella di Re Granchio), ma si riposizionano soprattutto rispetto alla narrazione di altri di quella colpa, come protagonisti inediti del proprio racconto privato.
Se da un lato Santino rivendica infatti fieramente la fama (immeritata) di virile ed eroico paladino degli oppressi – anche se ricorda a più riprese una parodia beffarda e goffa dei granitici maschi leoniani (non sa sparare, non sa amare, sa solo andare a cavallo) – Rosa si sottrae invece con forza prorompente e ardita alla classica figura di donna succube, di puro oggetto del desiderio fiabesco relegato normalmente a mero personaggio secondario («suora, puttana o sposa» le ha insegnato la madre prima di darle in dono una pistola che nessuno crede sia in grado di usare), e che ora invece nel riscatto del racconto mitico torna a essere soggetto autonomo desideroso di libertà.
Così il legame sovversivo e ribelle tra Rosa e Santino, uniti (e disuniti) in Testa o croce? dalle circostanze più nefaste, più che sulla più classica delle storie d’amore si fonda proprio su questa ricerca spasmodica della propria leggenda, di nuovi ruoli da attribuirsi e raccontarsi con l’impeto libero della propria fantasia, in contrasto alla spettacolare macchina d’intrattenimento fondata e trasportata in tournée da Buffalo Bill e da tutte le sue imposture.
Partendo dalla stessa forza motrice del caso (a cui il titolo Testa o croce? sembra riferirsi) che anima da sempre anche il cinema dei fratelli Coen (si veda in particolare l’anti-western de La Ballata di Buster Scruggs in cui si aggrovigliano diversi racconti idiosincratici di altrettanti cantastorie), Testa o croce? si trasforma in un’agiografia sgangherata e (di)storta, di miti più veri della realtà, perché mitologiche sono nella loro inaffidabile verosimiglianza le leggende che qualcuno sente reali per il fatto stesso che siano state narrate a qualcuno e da qualche parte.
Se A Serious Man, forse il manifesto teorico del cinema dei Coen, ci ricorda che non abbiamo il controllo su niente, tantomeno sui nostri racconti personali, è poi Buffalo Bill in Testa o croce? a ribadire che non conta mai cosa esce dal lancio stocastico della moneta del titolo, ma cosa si desidera che esca durante quell’attesa. Per citare di nuovo William Goldman a chiusura de La principessa sposa «la vita non è giusta, è solo più decente della morte»4. Così il finale perfetto non esiste se dietro di esso non si annida quella buona storia, che, come per ogni altra leggenda, continuerà all’infinito anche dopo la sua fine.
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- Thomas Elsaesser, Malte Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, 2009, pp. 31-32 ↩︎
- Si vedano in merito Frederick Jackson Turner, The Significance of the Frontier in American History, 1893 e Richard Slotkin, Regeneration through violence, 1973 ↩︎
- Italo Calvino, Fiabe italiane, Introduzione, Mondadori, 2023, p. XIV ↩︎
- William Goldman, La principessa sposa, Marcos y Marcos, 2007, p. 329 ↩︎