La scorsa estate aveva stregato Cannes, adesso è giunto in sala per conquistare il grande pubblico. Stiamo parlando di The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, l’ultima avventura cinematografica di Wes Anderson. Dal 16 febbraio è anche possibile vederlo in streaming su Disney+.
Stavolta il regista si è cimentato in una peculiare raccolta antologica in cui numerose stelle del cinema (da Tilda Swinton a Bill Murray passando per Saoirse Ronan e moltissimi altri) si danno il cambio sullo sfondo delle iconiche, andersoniane scenografie color pastello. Ogni scena di The French Dispatch vive della fantasia del suo creatore e i dialoghi sono pregni di quell’ironia sottile, affilata e quasi surreale che ben conosciamo. Per i temi trattati, molti l’hanno percepita come una lettera d’amore al giornalismo, di fatto è qualcosa di più raffinato.
The French Dispatch non è altro che una vetrina delle ossessioni di Anderson, tra le quali spiccano sicuramente la Francia (o almeno, uno stereotipo su come essa dovrebbe essere), un passato mai esistito verso il quale il regista prova sempre una nostalgia tale da infondere a ogni elemento del film un gusto retrò, la lettura del New Yorker portata avanti da ragazzo e lo studio dei dietro le quinte della rivista.
La prima cosa che mi ha attirato sono stati quei racconti brevi che aprivano il New Yorker. Si trattava però di narrativa pura, non di giornalismo vero e proprio. Allo stesso modo The French Dispatch sfrutta il contesto del giornalismo per andare oltre il giornalismo e soffermarsi su storie immaginarie. In questo film non c’è cronaca, non c’è realtà. Solo immaginazione e finzione. Per cui no. Non consideratela una lettera d’amore al giornalismo.
Wes Anderson
The French Dispatch: se un giornale fosse un film
In quella sua solita maniera che mischia la cultura hipster all’estetica bohémien, Wes Anderson ha messo in scena un’antologia di racconti visivi tratti da articoli di giornale inventati da lui. In particolare, sono articoli dell’ultimo numero del French Dispatch, supplemento europeo del quotidiano statunitense Evening Sun con sede principale a Liberty, in Kansas.
Parliamo chiaramente di un giornale fittizio, che trae spunto soltanto vagamente dall’esperienza del New Yorker e vuole, più in generale, ricostruire la magia quelle redazioni dotate di un forte senso d’appartenenza al giornale. Il French Dispatch si occupa di inserti culturali e approfondimenti sull’arte, la cucina, lo sport, l’attualità. È nato per volontà del suo editore (Bill Murray) e chiuderà con la sua morte, come da testamento, con un numero speciale. La location scelta per la sede del giornale è Ennui-Sur-Blasè, una città immaginaria e immancabilmente francese.
Una delle prime idee legate al film era di renderlo il più francese possibile. Volevo girare un film francese, con un cast francese. Per cui il passo successivo è stato cercare il luogo giusto. Io e il mio scenografo ci siamo messi a girare per la Francia alla ricerca di una location che non fosse troppo grande e troppo caotica. Ci serviva un posto tranquillo non solo dove girare il film, ma dove poter vivere per calarci nell’atmosfera e concentrarci al meglio. Insomma, non volevamo tra i piedi i ritmi frenetici del mondo industrializzato. Così abbiamo trovato Angoulême: un posto ideale che ci ha consentito di lavorare come una volta, con serenità e senza fretta.
Wes Anderson
Ennui è magnificamente illustrata nel primo segmento di The French Dispatch, grazie alla trasposizione visiva di un articolo sulla città a cura di uno spericolato giornalista sportivo che ama la sua bicicletta (Owen Wilson). Anche lui fa parte della redazione del French Dispatch, popolata da personaggi sui generis, tutti abilissimi scrittori qui interpretati da star del cinema.
Vedere il film è come sfogliare le pagine del giornale: Tilda Swinton racconta la storia di un assassino (Benicio Del Toro) che dipinge in prigione e diventa famoso in tutto il mondo, Frances McDormand riporta le gesta di un giovane sessantottino (Timothée Chalamet) alle prese con la pubertà e la rivoluzione (forti The Dreamers vibes, per capirci), infine Jeffrey Wright alle prese con un pezzo per la sezione dedicata alla cucina che è, in definitiva, il reportage di un rapimento.
Le vite degli scrittori si intrecciano con le parole che mettono su carta e The French Dispatch potrebbe sembrarvi un guazzabuglio di avventure surreali fino al finale.
The French Dispatch è un manifesto dello stile Wes Anderson
La filmografia di Wes Anderson la si potrebbe immaginare come una pasticceria storica, uno di quei luoghi fermi nel tempo e più simili ad una boutique che ad un negozio.
È possibilmente situata nel cuore di Parigi: carta da parati color confetto, sedie dotate di cuscino di velluto imbottito, posate d’argento intarsiate, un vecchio jukebox capitato là in seguito ad una vicenda strampalata, e via dicendo. In questa ideale pasticceria, l’acquirente entrerebbe incuriosito dall’aspetto del locale e finirebbe con l’adocchiare qualche farcitissima squisitezza esposta dietro il vetro del bancone. A servirlo, un barista con sottilissimi baffi e una divisa color crema. Il fortunato cliente nutrirà i suoi occhi prima che la sua pancia, perché nell’universo di Wes Anderson regna la bellezza delle forme, delle simmetrie e dei toni cromatici.
Pochi hanno avuto successo nel costruire un sistema di riferimenti estetici personalissimo e riconoscibile come Wes Anderson ha saputo fare attraverso i suoi film: andersoniano è ormai un aggettivo, il profilo Instagram @accidentallywesanderson, ad esempio, raccoglie ogni immagine che rimanda allo stile del regista.
The French Dispatch non vuole interrompere la tradizione, anzi, verrebbe da dire che esso funga da manifesto dello stile andersoniano e riassuma in sé l’intera opera del regista. È, come hanno detto in molti, un film di Wes Anderson all’ennesima potenza.
Questo è evidente prima di tutto dal fatto che il titolo del film contiene il grande amore di Anderson, la Francia (sognata e per questo vagamente stereotipata, ma non ci interessa), che resta la palese fonte d’ispirazione per le sue scenografie. In secondo luogo, la visione non lascia dubbi: palette di colori pastellosi, chincaglierie da negozio dell’antiquariato, spazi simmetrici. The French Dispatch è un prodotto ricercato, elegante, davvero sfizioso.
Promosso, con qualche riserva
Insieme all’estetica, il marchio Wes Anderson porta con sé un certo modo di girare e di scrivere: la macchina fissa, le avventure rocambolesche dei personaggi, la sceneggiatura divertente ricca di precisazioni su dettagli superflui, i riferimenti colti. È anche questo che i suoi fan amano.
È il motivo per cui i film di Anderson rischiano, a lungo andare, di diventare poco più di un esercizio di stile, un baratro dentro il quale The French Dispatch rischia pericolosamente di cadere. Nonostante ci siano vari momenti morti e il manierismo di Anderson raggiunga qui livelli maniacali, il film resta a galla.
La visione risulta piacevole, forse a volte un pochino noiosa, ma multiforme, a sufficienza da incuriosire. Ci sono novità e sperimentazioni per Anderson, che stavolta gioca anche con un bel bianco e nero. In certi punti, mescola attori in carne e ossa con graziose illustrazioni in 2D.
Il regista si diverte moltissimo con la macchina da presa, le scenografie e i personaggi, costruisce ancora una volta un mondo da sogno dove buoni e cattivi si confondono. È chiaro che The French Dispatch merita una visione (un consiglio: in lingua originale), se non altro perché è già diventato un cult movie. Resta però una domanda per il futuro: Wes Anderson riuscirà a continuare a stupirci?
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