Certe volte la realtà spaventa molto più della fantasia. È quello che succede in Una Mamma Contro G.W. Bush, titolo italiano di Rabiye Kurnaz gugen George W. Bush, nelle sale italiane dall’1 dicembre. Basato su fatti realmente accaduti, il film ha come protagonista una madre alle prese con l’arresto ingiusto del figlio. E da qui l’incubo più grande di tutti, l’inizio di una battaglia legale che, apparentemente persa in partenza, porterà una donna a sfidare a viso aperto le più alte cariche politiche.
Diretto dal regista tedesco Andreas Dresen, e presentato al Festival del Cinema di Berlino (dove ha vinto il premio per la migliore attrice e per la sceneggiatura), Una Mamma Contro G.W. Bush riaccende i riflettori su uno dei capitoli più oscuri della storia recente: gli avvenimenti perpetrati all’indomani dell’11 settembre a Guantanamo, la celebre prigione statunitense in territorio cubano.
Un nuovo punto di vista su Guantanamo
La vulcanica Rabiye Kurnaz (Meltem Kaptan) è una donna tedesca di origini turche; Bernhard Docke (Alexander Scheer) è un avvocato misurato, strenuo difensore dei diritti umani. A unire due persone tanto diverse è il desiderio di salvare Murat, figlio di Rabiye arrestato in Pakistan con l’accusa di terrorismo. In una vera e propria parabola à la Davide contro Golia, Rabiye e Bernhard cercheranno in tutti i modi di liberare Murat dalla terribile prigione di Guantanamo, intentando addirittura una causa contro G. W. Bush, l’allora presidente degli Stati Uniti.
Non sono di certo mancati negli ultimi anni film su Guantanamo. Codice d’onore, Camp X-Ray e il recente The Mauritian sono solo alcuni resoconti su celluloide delle atrocità commesse all’interno del campo di prigionia voluto da Bush Jr. nel gennaio 2002. Ma se, appunto, tutti questi film risentono di uno sguardo schiettamente americano (se pur di denuncia), Una Mamma Contro G.W. Bush fornisce un nuovo e interessante punto di vista. Il film di Dresen, di produzione tedesca, è attento a denunciare non solo le storture di una crudele politica americana, ma anche le inadeguatezze della politica respingente della madrepatria, incapace di accogliere e tutelare i diritti di un tedesco di origini turche.
Un dramedy né troppo drama né troppo comedy
Bilanciare il dramma e la risata non è impresa facile, soprattutto quando c’è di mezzo un buco nero come Guantanamo. Una Mamma Contro G.W. Bush riesce a trovare quasi sempre un buon punto d’incontro tra i due generi. Innanzitutto, considerevole la prova di Kaptan, che restituisce allo spettatore una mamma coraggio dalla simpatia così impetuosa da smorzare considerevolmente il dramma che si consuma oltreoceano. Il suo rapporto con l’avvocato difensore – interpretato da un ottimo Alexander Scheer – è costruito in modo credibile e sincero, senza inutili forzature. Le gag tra i due sono genuine e mai esagerate, talvolta quasi necessarie per stemperare una tensione che sarebbe altresì continua.
Ma affrontare Guantanamo con un piglio comico resta comunque un’operazione molto complessa. La sceneggiatura di Laila Stieler, pur facendo il massimo per sfruttare l’umorismo strabordante di Rabiye, può poco o nulla sull‘incombenza tragica del campo di prigionia dove è rinchiuso e torturato Murat. Più ci si avvicina ad esso, più la comicità sbiadisce – non sempre agilmente – per lasciare spazio a un dramma oscuro, dove il nemico terrorizza ancora di più perché senza volto. Subentra, pertanto, una sottile marca quasi orrorifica, potenzialmente in grado di avvalorare l’ingegnosità stilistica del film di Dresen.
Un finale non altrettanto audace
Va da sé che un racconto del genere travalichi riflessioni di natura squisitamente cinematografica. Ancora oggi suscita sdegno questa prigionia attuata da un’America che, non più liberatrice ma tiranna, ha non poche volte reagito alla ferita dell’11 settembre violando celatamente i diritti dell’uomo. Ma nel film, essa viene realmente colpevolizzata? E se sì, Una Mamma Contro G.W. Bush ne denuncia apertamente la politica o si limita a sussurrarne difetti, rimanendo quindi tra le fila di un racconto sì appassionante, ma sotto certi aspetti incompleto? La risposta va ricercata nella seconda parte del film, un po’ meno efficace della prima.
Sono soprattutto gli ultimi quarantacinque minuti a sfilacciare un dramedy magari non perfetto, ma che comunque era riuscito a mantenere un buon equilibrio narrativo. Il progressivo avvicinamento a Guantanamo, che resterà per tutto il film nemico oscuro e inaccessibile, sembra spossare sia l’esuberanza comica di Rabiye sia la forte critica riservata alle assurdità geopolitiche così ben individuate nella prima oretta di film. A emergere alla fine è dunque un ordinario che, dopo aver sfidato qualcosa di orribile e straordinario, preferisce languire in una leggerezza banale, scolorendo un happy ending senza pathos, quasi inconsciamente desideroso di sventolare bandiera bianca di fronte alle ambiguità della Storia (con la S maiuscola).
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