Una scena del film Una ragazza brillante (Diamant brut) di Agathe Riedinger, in cui Liane (Malou Khebizi) e le sue amiche vivono una serata di divertimento nella loro cittadina di periferia francese

Una Ragazza Brillante, la religione del successo

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Come desiderare soldi, successo e libertà in un mondo sempre più immateriale, fatto di scrolling e messaggi virtuali alla periferia dell’esistenza e della provincia? Una Ragazza Brillante (Diamant Brut), esordio della regista francese Agathe Riedinger, presentato in Concorso a Cannes 2024 e ora in sala dal 13 novembre 2025 grazie ad Academy Two, si mantiene stretto sui sogni ancora astratti della sua protagonista, ma non sempre riesce nel tentativo di restituirne uno sguardo autentico, inedito e pregnante sulla sua vita.

Una Ragazza Brillante, scrivere la propria immagine di plastica

Altissimi tacchi sbrilluccicanti, spessi strati di trucco sulla faccia, Liane (Malou Khebizi), effervescente e irruenta diciannovenne, è alla disperata ricerca di un centro gravitazionale in cui essere guardata e adorata. «A tutti piace piacere» ripete. Liane si acclama influencer, improvvisa spettacoli di pole dance sui pali della luce, stacca gli strass sulle magliette che trova nei negozi per incollarli sulle sue scarpette di cristallo tarocche, per accrescere l’immagine brillante del titolo. Ma quello che Liane sogna davvero sono i reality show: affrancarsi dal mondo emarginato della provincia del sud della Francia in cui vive con difficoltà insieme alla madre assente e la sorellina già truccata a sua somiglianza, e abbracciare finalmente l’universo smagliante promesso dai social.

I provini per il popolare programma Miracle Island (una sorta di L’Isola dei Famosi francese) iniziano ad alimentare questa insaziabile e ancora astratta scalata, che promette mesi di riprese, interviste promozionali e prodotti da sponsorizzare, con l’unico costo richiesto di «stare al gioco». Una Ragazza Brillante racconta di questa religione dell’immagine, in cui pregare Dio per raggiungere la suprema viralità («Lavoro per il mio destino, il resto è Dio che lo dà»), di una vocazione che arriva orizzontale, sul cellulare, per un casting, e il tentativo ossessivo di meritarselo, aspettando impazienti tra le tante erbacce alte della provincia, con addosso soltanto vestitini striminziti, corpi feriti da tatuaggi artigianali o stirati e rimpolpati fino a plastificarsi, come comanda il canone ufficiale.

Una scena del film Una ragazza brillante (Diamant Brut) di Agathe Riedinger, in cui Malou Khebizi interpreta una giovane irruenta della provincia francese ossessionata dalla sua bellezza e dalla sua popolarità sui social

Con un’idea invadente e oppressiva di bellezza (come in The Ugly Stepsister la tirannia cosmetica è oggi la più attuale fiaba dell’orrore proprio perché sempre autolesionistica e dolorosa) e piccoli guadagni ottenuti rivendendo merce rubata (le sue affilatissime unghie smaltate riescono a rompere facilmente le custodie antitaccheggio), Liane in Una Ragazza Brillante cavalca la sua estetica come farebbe una cocotte della Belle Époque, credendo di poter ribaltare il potere e la sua classe sociale in una forma perfezionistica e ammiccante di auto-trascendenza che ai nostri tempi passa da like e repost.

La premessa tematica di Una Ragazza Brillante è evidentemente iper-contemporanea: l’ossessione per un’immagine fabbricata e artefatta in base alla quale trasformare e riabilitare la propria esistenza dal bordo della vita verso un’appariscente e popolare narrazione propagandistica, di «un’attrice nella vita reale» che drammatizza (se non inventa) le proprie avventure laterali come fosse protagonista di una serie glamour dagli improbabili e idilliaci finali. Intanto, offline, fuori onda, rimangono scoperte le vesciche doloranti per le scarpe troppo strette con cui correre sull’asfalto e nei campi, le etichette di vestiti plissettati ritagliati a misura per l’occasione, la pelle fradicia di sudore scorticata delle sue impurità.

Una Ragazza Brillante: tante ispirazioni, poca identità

La regista Agathe Riedinger – alla sua opera prima con Una Ragazza Brillante – inquadra Liane con attenzione quasi antropologica: il rito tribale del make-up, il sacrificio pagano del proprio corpo irrequieto messo alla mercé di se stessa (e mai degli altri, visto che Liane contrasta a testa alta ogni maschio molestatore), con l’unico obiettivo di idealizzarsi e divinizzarsi davanti al paradiso protesico del proprio successo personale, ancora prima che riesca ad avverarsi, perché «in questa vita solo i belli ce la fanno».

Malou Khebizi è Liane in Una ragazza brillante (Diamant Brut), una giovane forte e sfacciata che con la sua bellezza sogna un riscatto sociale e d'immagine

Il problema è che troppo spesso Una Ragazza Brillante aderisce didascalicamente a tutti i racconti che sono già stati fatti sul tema: di discorso, di sguardo, di linguaggio. Non solo quindi la solita mitologia dell’apparire, la sua impossibile e miserabile parabola di fama mediatica, ma anche l’utilizzo tradizionale del dispositivo cinematografico per scardinarne i pezzi e le strutture, tra estetismi e orpelli formali –  sempre e soltanto epidermici e immediati – attorno cui far orbitare, di nuovo superficialmente, ipersessualizzazione femminile, mercificazione e costruzione artificiosa di corpi consumati fino a feticizzarsi del tutto (gli esasperati commenti di alcuni followers di Liane si susseguono in cartelli come in una nuova pratica  di “sacrificio digitale”, che è tale anche quando è adorante).

Se infatti in Una Ragazza Brillante da un lato spicca, sempre al centro dello schermo, una sorprendente Malou Khebizi, anch’essa esordiente, capace di restituire con fisicità prorompente il tempo fulmineo di ascesa e ricaduta del successo – perché la vita scivola via più veloce delle sue immagini -, la confezione stilistica della regista Agathe Riedinger – che parte dall’analoga premessa del cortometraggio J’attends Jupiter – è la solita che ci si aspetta dal cinema arthouse da festival: camera a mano, la musica drammatica con gli archi a ovattare il diegetico, i personaggi pedinati da didattica lezione zavattiniana in un riscatto di inquadrature in 4:3 – ora vicine, ora lontane – che devono avanzare insieme al contorno filmato, con l’etica sociale a legittimare il resto.

Dallo stile frenetico e composto dei fratelli Dardenne (le quotidiane battaglie ai margini della giovane Rosetta sembrano incarnarsi da dietro perfettamente anche in Liane) fino alle periferie umaniste di Andrea Arnold, la percettività sensoriale di Céline Sciamma. Ma anche Anora, premio Oscar per il miglior film nel 2025 – la storia di una sex worker che proietta la sua (illusione di) libertà nelle inattuabili promesse d’amore del ricco figlio di un oligarca russo. E di Sean Baker rimangono in Una Ragazza Brillante non solo i temi umani e gli sviluppi narratologici dei suoi lavori precedenti, ma anche i toni granulosi e pastosi, le sfumature calde che arrivano, qui senza commedia, a nebulizzare e disperdere le silhouette come in The Florida Project.

Idir Azougli e Malou Khebizi in una scena di Una ragazza brillante (Diamant Brut), in cui si ritrovano soli ma uniti nella speranza di un riscatto sociale dalla dura vita della provincia francese del Fréjus

La sensazione infatti è che Una Ragazza Brillante, al di là della sua mancata specificità, perda a tratti il suo spirito più autentico: la regista Agathe Riedinger vorrebbe da un lato riabilitare lo slancio empatico e senza giudizio all’interno di un mondo ossessionato dalle proprie immagini contraffatte (di nuovo Sean Baker), ma finisce poi per rimanere risucchiata e schiacciata dallo stesso sistema di apparenza performativa ed estetizzabile, con personaggi ripresi cinematograficamente vicini e sgargianti, ma che umanamente rimangono sempre a debita distanza, in una forma filmica e narrativa che vorrebbe gridare autorialità, ma poi in sostanza rimane spesso distaccata e irrisolta.

Una Ragazza Brillante dimostra che a volte serve lasciarsi andare di più ai propri attori, lasciare che sia la loro interpretazione – travolgente, istintiva, talvolta anche aggressiva e animalesca – a guidare lo sguardo di chi sta riprendendo, senza ingabbiarli nei confini di un’inquadratura preconfezionata con fin troppa arte, affinché la “realtà”, il reality, la réalité (scombinata e sconfinata per dirla come nel film omonimo di Quentin Dupieux) possa esprimersi al suo meglio.


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Classe 1998, piemontese, passo costantemente dal buio della sala a quello della camera oscura, sognando sempre un mondo in bianco e nero stampato a mano con la grana fine. Sospeso tra l'immaginazione visionaria di Leos Carax e il realismo magico di Alice Rohrwacher, quando non scrivo di cinema (e per il cinema), studio medicina.

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