Yannick dopo DAAAAAALI! (con estrema cura, questa volta ci siamo permessi di non levare il maiuscolo) rappresenta per il regista Quentin Dupieux il tredicesimo film: il quarto in soli due anni e il secondo nell’anno corrente. In Italia è stato presentato al 41° Torino Film Festival e verrà distribuito nelle sale a partire dal 18 gennaio 2024 con I Wonder, ma in realtà la sua anteprima mondiale l’ha già vissuta durante il 77° Locarno Film Festival di questa estate.
Yannick, tutto è concesso
Conosciamo Yannick (Raphaël Quenard), giovane operaio che una sera decide di prendere un treno e fare molti chilometri (come dice lui stesso), per arrivare a un piccolo teatro di Parigi dove va in scena Le Cocu, una piccola e pessima commedia teatrale. Yannick stanco dello spettacolo si alza quindi in piedi, lo interrompe e prendendo in ostaggio gli attori (Pio Marmaï, Blanche Gardin e Sébastien Chassagne) e il resto del poco pubblico, li costringe rispettivamente a inscenare e ad assistere a un’opera teatrale scritta al momento da lui.
Furbo, malizioso, senza freni e capace di andare oltre il tabù sociale (ci ricorda qualcuno), Yannick è un po’ l’antitesi dello spettatore del Ventunesimo secolo. Rispettoso come un chierico, fermo come una statua, giace sulla sua poltrona inerme e si lascia trasportare dalla visione come se fosse un’operazione chirurgica.
Yannick, invece, si posiziona a metà tra lo spettatore insoddisfatto e il terrorista; ha il coraggio, o la stanchezza, di sollevarsi e fare l’impensabile: rompere quel vetro della sospensione dell’incredulità, in cui si pensa che tutto sia concesso senza freni (dal pubblico) e che tutto debba essere percepito acriticamente, lasciato correre in un religioso rispetto per l’artista.
Intenzionato a far concludere un pessimo show, Yannick dà spazio piuttosto a una commedia dell’arte dove vige un altro tipo di costrizione. Con un ribaltamento ironico, trascina gli spettatori della sala in un incubo visivo, prigionieri di un teatro, passando dall’essere vittime morali a vittime di un attentato. La visione intesa come sacrificio, quasi vitale, è presa qui in oggetto come condizione del pubblico attivo e in grado di essere parte costituente dell’opera.
D’altra parte, non è un mistero che per alcuni lo spettacolo potrebbe anche proseguire in solitaria, con la sala vuota, senza l’audience ad assistere. C’è l’arte eterna e poi c’è Quentin Dupieux. È arrivato il momento dello spettatore. È giunta la condizione per un’arte immorale. Il regista francese gli dà così un palco, la possibilità di riscattarsi, un set anarchico in cui adesso è a lui che tutto è concesso. E, sorpresa: in realtà l’opera teatrale che Yannick ha scritto in pochissimo tempo sembra a tutti gli effetti funzionare, anche più di quanto previsto.
Il teatro come spazio di narrazione dell’assurdo, provocazione amorale, metafora sottile della genesi di un artista formatosi in stricto sensu sul palcoscenico. Yannick, un personaggio scontroso, irrispettoso, ignorante, diviene l’artista che porta avanti, a tutti gli effetti, una crociata avanguardistica, l’eroe a cui tutti devono aspirare. Se con DAAAAAALI! siamo al surrealismo sacro per Dupieux, il principio fondamentale di ogni suo film e di ogni sua attività, anche virale (ricordiamo, perché è sempre bene farlo, che dietro al successo di Mr. Oizo si nasconde proprio lui), con Yannick ci addentriamo nel campo della biografia, voluta o vissuta addirittura; un viaggio inconscio nell’irrefrenabile mente di Dupieux.
Ancora più del biopic dalìliano, in Yannick c’è la pulsione che lo porta a desiderare un’arte libera, senza freni e senza blocchi, che leghino la libera immersione empirica nell’antro dell’artista. O meglio, un’arte libera senza freni e senza blocchi che concorre al grado zero della commedia.
Rompere il silenzio in sala
Qui sta il divertissement dell’opera che Yannick scrive per dispetto al regista e al cast in scena: improvvisata ma contestualizzata, libertaria ma condivisa tra gli spettatori, gli spazi dell’arte vissuti e non lasciati a soffrire in un tombale silenzio apolitico. Una scena dentro la scena, la realtà che supera la finzione, ancora una volta, con la cronaca locale che diventa testimone assoluto; non una semplice e schizoide assurdità intellettualistica, ma una vera e propria reale esperienza che la pratica borghese vuole censurare.
Yannick è l’espressione del dibattito libero dalle maglie di quel potere che cerca di zittire e tramortire l’opinione pubblica (“A teatro si viene per ascoltare, non per urlare“), ma ancora una volta con Dupieux si cade in piedi. Ritorniamo a dire quello che già il precedente film presentato a Venezia ci portava ad affermare: l’arte per il regista francese è il combustibile che mette in moto la macchina della società. Conosce la natura profonda del mezzo cinematografico, e lo sfrutta per mettere in luce i paradossi della società borghese, auspicando la liberazione dei luoghi dell’arte dall’inquisizione ferrea istituzionalizzata. Fino ad allora, non ci fermerete mai.
* Grazie a Quentin Dupieux per la libera citazione.
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