La fiaba di Peter Pan è un eterno classico che gravita attorno al culto della giovinezza e al rituale mai sopito del tempo che passa. Ecco dunque che un’originale rivisitazione del classico letterario di J.M. Barrie approda su Disney Plus con il titolo Wendy e porta la firma di Benh Zeitlin. Il tocco raffinato del regista statunitense torna sullo schermo dopo nove anni dal suo ultimo lungometraggio, Il Re Della Terra Selvaggia (2012). Una pellicola di innata dolcezza, incastonata nell’universo di una magia che solo l’infanzia può cullare e trainata dall’inedita forza di una bambina.
Il film, vincitore al Sundance Festival del Gran Premio della Giuria e premiato al Festival di Cannes con la Caméra D’Or, introduce un regista che sa distinguersi per il peculiare sguardo sulla realtà. Per questo anche Wendy appare sin da subito come un prodotto affascinante, che ricongiunge gradualmente lo spettatore ai suoi ricordi d’infanzia, trascinandolo in una contemplazione votata alle emozioni. È un’ode riflessiva alla maternità, con una dedica, prima dei titoli di coda, che ricorda Kassie Leah France, madre della giovane protagonista, Devin France, e scomparsa nel 2019.
Wendy, il sogno oltre la ferrovia
Ed è proprio la giovanissima France a vestire l’innocenza di Wendy Darling, una bambina che vede il suo destino intrappolato in una tavola calda ai bordi della ferrovia. Lei e i fratelli gemelli, Douglas e James, aiutano la madre a servire i clienti, giocano sulle rive del fiume e si addormentano con la storia della buonanotte, in una casetta affacciata sui serpeggianti binari del treno. Ogni giorno la stessa routine, che Wendy vede impressa nella sua inevitabile crescita. Ma lei è diversa e non può dimenticare quando, ancora piccolissima, ha visto un bambino scappare su un treno in corsa.
Da quel momento ha trasformato il suo sogno di fuga in storie con protagonisti i ribelli. Chiama così i bambini che, con la luce negli occhi, sono riusciti a fuggire lontano. Wendy disegna le loro avventure con un perpetuo desiderio di evasione, finché un giorno Peter Pan (Yashua Mack), appare nella notte preannunciato dalla sua ombra. È a bordo di un treno che rievoca la magia del Polar Express e sullo sfondo dei binari, portavoci dell’eredità mirifica di Stand By Me (1986), porta Wendy e i suoi fratelli sull’Isola Che Non C’è.
Seconda stella a destra, questo è il cammino
Come location, Benh Zeitlin sceglie Montserrat, un’isola delle Piccole Antille, immersa nel cristallino mare caraibico e divisa tra i boschi e un deserto di rocce da cui affiora un vulcano. Un luogo deserto, evocativo quanto l’Etna nell’ultima serie TV di Niccolò Ammaniti, Anna. E in Wendy si ritrova quella stessa fascinazione della solitudine, dei paesaggi avvolti da un misticismo e una ritualità primitiva che appartiene ai bambini, o meglio, ai bimbi sperduti. La loro eterna giovinezza è legata a un patto d’amore e fedeltà a Madre, una creatura marina che vive delle risate infantili, racchiuse nei frammenti luminosi che la compongono.
L’immaginazione nutre la spensieratezza, che a sua volta si fa madrina della gioventù. Nella loro inconscia fantasia idilliaca, i bimbi sperduti credono nell’immortalità, garantita dall’unica madre che riconoscono tale e che li protegge. C’è però un’unica regola per sopravvivere sull’Isola Che Non C’è. Mai voltarsi indietro e abbandonarsi ai pensieri tristi. Sono loro i portatori della vera cryptonite per i bimbi sperduti perché, si sa, il dolore è motore di vecchiaia e le brutte esperienze fanno inevitabilmente crescere. Ma sull’Isola Che Non C’è, chi ne rimane avvinghiato, perde se stesso per sempre.
Io credo nelle fate
Forse qualcuno ricorda questa frase, firma d’onore di una delle trasposizioni più celebri del mito di Peter Pan. Si tratta dell’omonimo film del 2003, con Jeremy Sumpter, allora idolo delle teenager, e Oscar Isaac, celeberrimo Lucius Malfoy, nei panni di un ammaliante Capitan Uncino. I due eterni nemici si incontrano davanti a un’inesorabile verità: le fate stanno morendo. L’immaginazione si sta spegnendo a favore di una sofferenza che lentamente si insinua nella consapevolezza adulta. Così, il motto “Io credo nelle fate, lo giuro, lo giuro” diventa espressione di una ferma volontà di riconoscersi nell’amore e nella spensieratezza infantile.
In Wendy, tale magia si traduce in un canto che i bimbi sperduti invocano per richiamare la loro Madre. Questo è l’unico modo per affermare la propria identità, laddove “Quando perdete voi stessi, Madre non può più proteggervi”. E qui Wendy si rende paladina di un messaggio di disvelamento, ritagliando la verità per cui crescere è necessario, ma senza dimenticare l’anima del gioco, dell’amore e del valore dei sogni racchiusa in un simbolo, Peter Pan. Solo così la paura dell’età adulta non si riduce in un percorso di autodistruzione solitaria, ma vivifica la risata del bimbo sperduto mai dimenticato.
L’autorialità in simbiosi con la musica
Berth Zeitlin sceglie di affidare la sua rivisitazione a una poesia del reale. Attraverso l’intensa malinconia dei paesaggi, Wendy lascia che la spontaneità dei giovani attori, in tutta la loro innocenza, si sposi con la spettacolarità di luoghi che parlano da sé. In una produzione a basso budget si distingue il tocco autoriale del regista, affidato alla meticolosa cura del dettaglio e a inquadrature a volte ambiziose, che ricalcano a tratti una scelta documentaristica. La narrazione vive poi in simbiosi alla musica, su composizioni dello stesso Zeitlin che, come già ne Il Re Della Terra Selvaggia, toccano il cuore.
Ancora una volta, dunque, la musica si fa portavoce della parola non detta, del sentimento espletato in immagine che comunica con inedita semplicità. Forse può essere difficoltoso al principio approcciarsi a una storia tanto amata nella sua magia, da apparire diversa con una trasposizione più realistica. Ma le scelte narrative di Wendy fanno rivivere, con un approccio delicato e inconsueto, l’accettazione della crescita. La consapevolezza che ciascun bambino si atteggia da grande finché non capisce di non potercela fare da solo.
Ecco dunque che Wendy si trova a dover diventare la mamma di tutti e l’interpretazione di Devin France, classe 2008, racchiude nei tredici anni di una bambina uno sguardo maturo, che cattura lo spettatore per la serietà con cui si approccia a una riflessione che non si è mai troppo piccoli per affrontare.
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