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Empire of Light copertina

Empire of Light, un film che vuole troppo e lascia poco

10 minuti di lettura

Empire of Light, approdato nelle nostre sale il 2 marzo, presenta sulla carta tutti gli ingredienti per un prodotto fenomenale: la regia di Sam Mendes, la fotografia del leggendario Roger Deakins, la mirabile performance di Olivia Colman, gli incantevoli costumi di Alexandra Byrne e la pregevole colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. Chiunque in questo elenco vanta una carriera punteggiata di successi. Scopriamo insieme se anche Empire of Light riesce a sfruttare questa schidionata di talenti a suo vantaggio, oppure se inciampa sui suoi stessi passi.

Empire of light, trama

Hilary (Olivia Colman) lavora all’Empire, un cinema sul lungomare del Kent, nell’Inghilterra del sud. La sua è un’esistenza abitudinaria, scandita da letture, bicchieri di vino, lezioni di ballo, oltre che alle sue diverse mansioni in qualità di vicedirettrice dell’Empire. Tuttavia, non c’è mai gioia in tutto questo: Hilary non ha nessuno al suo fianco e si trascina dietro una fastidiosa relazione col suo capo Donald (Colin Firth). Da qualche tempo ormai soffre anche di disturbo bipolare, che la porta a isolarsi sempre di più. Sarà l’arrivo di Stephen (Micheal Ward), nuovo dipendente all’Empire, originario di Trinidad, a rivoluzionarle la vita. Lui è intelligente, sempre sorridente e molto affascinante.

Iniziano una relazione fatta di incontri segreti nelle sale abbandonate del cinema e discussioni intime, ma l’instabilità mentale di Hilary e le rivolte popolari contro le comunità afrocaraibiche mineranno il loro rapporto. Eppure, fino all’ultimo, Stephen e Hilary impareranno l’uno dall’altra a lottare per ciò che li rende felici, e si saluteranno per un’ultima volta con un abbraccio.

La natura incerta di Empire of Light, tra cinema, razzismo e sanità mentale

Empire of light
© 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

Empire of Light vuole essere molte cose, e finisce per non essere niente. Questo perché si àncora a tre filoni tematici, senza però riuscire a farne risaltare nessuno. Sono infatti troppo vasti per essere trattati tutti insieme, col risultato di un miscuglio insapore.

Il primo filone, e forse il più ovvio, è quello del cinema. L’Empire, l’ambientazione principale della vicenda, è un magnifico e imponente edificio, dalle cui sale e scalinate traspira un’aura di gloria perduta. Infatti, gli ultimi piani, ora abbandonati, in passato ospitavano altre sale, e persino un bar con tanto di pianoforte. A riunire in sé tutto il discorso meta-cinematografico è la figura del proiezionista Norman (Toby Jones), un vero cinefilo che ha decorato la sua cabina di foto di divi e registi e insegna a Stephen i rudimenti della sua professione.

Il secondo filone è incentrato sul razzismo deflagrante nel Regno Unito thatcheriano, che vede un succedersi di moti di protesta del Fronte Nazionale negli anni Ottanta. Stephen viene insultato per strada, abusato verbalmente sul lavoro da un bigotto, umiliato dalla connivenza di chi gli sta accanto. Anche Hilary, che pur lo ama, fatica a comprendere la gravità della situazione. Il momento più terrificante deve però ancora arrivare: un branco di suprematisti bianchi, durante una protesta, sfonda i vetri dell’Empire e assale Stephen, mandandolo in ospedale. Lì, Hilary incontra la mamma di lui e si scusa, addossandosi la colpa del razzismo di un’intera nazione (una scena forzata che non è stata molto apprezzata sul web). Soltanto alla fine, Stephen si riprende dal trauma e può realizzare il suo sogno di andare all’università, in quello che sarà un nuovo inizio, seppur irto di difficoltà.

Terzo e ultimo tema di Empire of Light è quello della sanità mentale, che concerne la protagonista Hilary. Al principio, quella che pare semplice volontà di solitudine in realtà nasconde una salute psichica fragile e incline all’instabilità. La tresca malsana che ha col suo capo non fa altro che ricordare a Hilary quanto abbia bisogno di una relazione sana, sia dal punto di vista fisico che emozionale. Per sua fortuna arriva Stephen, ma quanto più la nascita del loro amore la porta all’apice della felicità, tanto più la sua fine la conduce alla depressione più nera. Arriva infine il punto di rottura, e Hilary viene prelevata dai servizi sociali e ricoverata in ospedale. Incontrerà Stephen dopo qualche mese e, accettando la fine della loro relazione, riesce a riprendere una vita normale.

Qualche pregio e molti difetti

EMPIRE OF LIGHT
© 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

Empire of Light ha già ricevuto un Golden Globe per la miglior performance drammatica della sua attrice protagonista Olivia Colman. Proprio questo aspetto, crediamo, rappresenta il vero punto di forza della pellicola. La recitazione della Colman è intensa, senza vie di mezzo. Hilary va incontro a cambiamenti repentini di umore, dalla gioia alla tristezza, fino alla rabbia, per poi ritornare a una gioia ambigua, quasi sadica (come nella scena in cui confessa alla moglie di Donald, il suo capo, la loro relazione). I sorrisi che lancia quando è in preda allo strazio valgono più di qualsiasi parte della sceneggiatura, già di per sé confusionaria. E se certamente anche la fotografia di Roger Deakins (Fargo, Blade Runner 2049, 1917) non può passare inosservata, non si può nemmeno affermare che sia il suo lavoro migliore.

Empire of Light soffre inoltre di battute che fanno stringere i denti, come quando Hilary rivela alla moglie di Donald la loro relazione, recitando uno storpiato e volgare soliloquio di Amleto, oppure la sua stessa insistenza nel leggere poesie nei momenti meno opportuni, con risultati a dir poco melensi.

Il nucleo metacinematografico di Empire of Light

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Empire of Light è l’ultimo film dai contorni meta-cinematografici, ovvero di riflessione sul cinema come arte, ad approdare nelle nostre sale. Prima di lui, abbiamo visto e apprezzato The Fabelmans di Steven Spielberg e Babylon di Damien Chazelle. Questa autoriflessione sembra scaturita dal successo sempre più dirompente dello streaming, che va a scapito delle sale del cinema. Con questa pellicola, Sam Mendes rimpiange i tempi d’oro delle sale cinematografiche, discettando nel frattempo sul ruolo della settima arte come fonte di escapismo. Vogliamo davvero sentirli, questo amore e questa venerazione per il cinema, ma non ci riusciamo. È stato fatto troppo poco per creare la magia, e quella piccola quantità radunata durante il discorso di Norman a Stephen, sul difetto del nostro occhio che non percepisce l’oscurità presente tra un fotogramma e l’altro, non è di certo abbastanza. La scena finale di Hilary che guarda commossa lo schermo non può che ricordarci il finale stesso di Babylon, con cui però impallidisce a confronto.

Empire of Light, sì o no?

Empire of Light, ci duole dirlo, è un guazzabuglio pretenzioso. Sopravvaluta la sua forza, caricandosi di troppi temi importanti, per poi cadere sotto il loro peso. Si salvano il cast, la fotografia e i costumi, ma quando un messaggio non funziona – in questo caso è persino difficile capire quale sia – il film è perduto, e presto dimenticato.


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Classe 1998, ho studiato Lingue e Letterature Straniere all’Università Statale di Milano. Ammaliata da quella tragicità che solo la letteratura russa sa toccare, ho dato il mio cuore a Dostoevskij e a Majakovskij. Viale del tramonto, La finestra sul cortile e Ritorno al futuro sono tra i miei film preferiti, ma ho anche un debole per l’animazione. A volte mi rattristo perché so che non mi basterebbero cento vite per imparare tutto ciò che vorrei.

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