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Amore, memoria e finzione ne L’hotel degli amori smarriti

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«È dal passato che facciamo risorgere la certezza dell’amore», dichiara un personaggio de L’hotel degli amori smarriti, poco dopo la metà del film. Dal passato, dalla mia memoria di spettatore, risponde una voce di Hiroshima mon amour: «mi ricorderò di te come dell’oblio dell’amore stesso». Ed è così che il resto della visione della commedia di Christophe Honoré si colora di un dubbio: ricordo come oblio dell’amore o amore come ricordo del passato?

L'hotel degli amori smarriti

Fra sogno e realtà nella chambre 212

L’hotel degli amori smarriti, in sala dal 20 febbraio, mette in scena un momento della crisi coniugale fra Maria (Chiara Mastroianni, premio per la miglior interpretazione nella sezione Un certain regard del Festival de Cannes 2019) e suo marito Richard (Benjamin Biolay). Quest’ultimo, venendo casualmente a conoscenza di una relazione extra-coniugale intrattenuta da Maria con un suo studente, scopre che la moglie, nel corso del loro matrimonio, ha avuto numerose relazioni sessuali con altri uomini. Richard si chiude in camera da letto. Maria, dopo una breve esitazione, abbandona l’appartamento, attraversa la strada e si stabilisce nell’hotel ivi ubicato. La camera assegnatale è la numero 212 (la “chambre 212″ del titolo originale), con rimando all’articolo numero 212 del codice civile francese: «I coniugi hanno l’obbligo di mutuo rispetto, il dovere di fedeltà, soccorso e assistenza».

All’interno della camera si dischiude un mondo sospeso fra sogno e realtà, fra passato e presente, che esplode la camera in un sistema di camere, entro il quale Maria trova un ringiovanito Richard (Vincent Lacoste), sua madre (Marie-Christine Adam), la sua volontà (impersonata da un uomo vagamente rassomigliante a Charles Aznavour, interpretato da Stéphane Roger)… Ma anche Irène (Camille Cottin), l’insegnante di pianoforte di Richard, con la quale questi aveva troncato una relazione amorosa per sposarsi con Maria, e che scopriremo appartenere anch’essa al passato, il ringiovanimento dell’attuale Irène (Carole Bouquet). Non da ultimo, nell’hotel Maria ritrova tutti i suoi amanti, in una scena di vaga felliniana memoria.

L'hotel degli amori smarriti

Mentre si ha l’impressione che i vari personaggi che animano l’hotel vivano tutti entro lo spazio mentale della sola Maria, incluso il giovane marito (proiezione dei desideri, a tratti subconsci, della donna stessa), la distinzione fra realtà e fantasia si complica piacevolmente quando alcuni fra questi personaggi escono dall’hotel e interagiscono con il mondo esterno. Trascorsa la notte, Maria incontra Richard nella strada che separa il loro appartamento dall’hotel: il mondo della fantasia sembra essere tornato a rifugiarsi nel subconscio della protagonista e la sua relazione con il marito sembra pronta ad affrontare nuove strade.

Spazio onirico e spazio cinematografico

Honoré costruisce, con leggera maestria, un universo diegetico sospeso ai confini fra onirico e reale. La macchina da presa sorvola lo spazio cinematografico con numerose plongées, senza preoccuparsi di rivelare la natura finzionale del luogo rappresentato. Il set, anzi, viene quasi dichiarato, addirittura decostruito, quando Maria e Richard vengono mostrati ai due lati di un modellino che ne riproduce le sembianze, utilizzato poco prima per un’inquadratura della strada sotto la neve. Lo spazio cinematografico, insomma, è messo in scena come finzione tanto per gli spettatori quanto per i suoi personaggi, i quali sembrano averne bisogno per accedere a un presente che è passato e presente allo stesso tempo, a una realtà in cui conscio e subconscio coesistono senza chiare distinzioni, che è poi la realtà del cinema (di un certo cinema, perlomeno) e che è l’unica realtà che possa permettergli di comprendere la loro storia e il loro amore.

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L’hotel degli amori smarriti è poi imbevuto dell’amore di Honoré per il cinema, a tratti dichiarato anche molto esplicitamente, costruendo l’appartamento di Maria e Richard sopra un cinema (l’esistente 7 Parnassiens, ribattezzato 7 Cinémas), o ambientando una delle ultime scene del film nel wellesiano Rosebud bar. Ma, anche, in maniera più indiretta, procedendo metacinematograficamente, come rilevato poco fa, o stravolgendo la cosiddetta “regola dei 180°” nel raccordare due inquadrature che mostrano Maria e Richard nel pieno della loro reciproca incomprensione.

Oltre la realtà fisica: suono e memoria

L’hotel degli amori smarriti è, infine, un film che esiste oltre lo schermo cinematografico. Così come la realtà fisica dei personaggi non è sufficiente perché essi riescano a ricordare, a comprendere, a decidere, la realtà fisica dello schermo non basta affinché gli spettatori abbiano anch’essi la possibilità di trascendere la distinzione fra sogno e veglia. A permettere lo sfondamento della realtà fisica oltre i confini dello schermo cinematografico è la dimensione sonora del film.

L'hotel degli amori smarriti

Quando la macchina da presa costruisce un punto di vista esterno allo spazio dell’azione, il punto di ascolto è invece interno. Quando una linea di dialogo inizia come diegetica, ascoltata mentre vediamo un personaggio pronunciarne le parole, uno stacco di montaggio con accavallamento sonoro interviene a rendere improvvisamente “over” quella voce. Quando Irène suona una manciata di note al pianoforte di Richard, queste note acquistano subito autonomia e divengono musica mentre le mani di Irène sono già lontane dalla tastiera. La dimensione sonora de L’hotel degli amori smarriti è la materia che tiene insieme spettatori e personaggi nell’ambiguità dello spazio-tempo rappresentato, nel passato che si fa presente, nel ricordo dell’amore.

Se amare significa ricordare il passato, ricordare può, però, essere anche un dimenticare: pensare al passato, in relazione al presente, e ricordarsi di ciò che più non è. Comprendere l’amore (o la sua fine) ricordandosi del suo oblio. E così, mentre L’hotel degli amori smarriti, entro i confini dello schermo cinematografico, diviene passato in un commovente fermo-immagine, la sua memoria, oltre i confini dello schermo, non cessa di esistere nella dimensione sonora che persiste oltre l’assenza di movimento.

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Nato a Milano nel ’94, ho studiato Musicologia fra le università di Pavia e Vienna (laurea triennale) e Utrecht (master of research), più che altro come pretesto per approcciare il Cinema dalla sua metà più “subconscia”. Mi sforzo di coniugare riflessioni teoriche a esperienze pratiche, interessato a esplorare gli infiniti modi in cui l’audiovisivo media e crea esperienze del reale. Attualmente studio presso la Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti.