DARLENE
It’s cool dude. We don’t have to talk.
—
VERA
It’s time we talk.
Queste le uniche linee di dialogo programmaticamente pronunciate all’inizio e alla fine dell’ultimo episodio di Mr. Robot, un’esperienza audiovisiva lunga quasi cinquanta minuti. Un singolo post-it basterebbe, dunque, a contenere l’intera trascrizione delle parole udibili durante il quinto episodio dell’ultima stagione di Mr. Robot, 405 Method Not Allowed.
Una sceneggiatura lunga un post-it? Non esattamente. Lasciamo in sospeso domanda e risposta appena formulate, con la promessa che, alla fine di questo scritto, entrambe saranno un po’ più chiare. Con esse, un po’ più chiara (o, meglio, un po’ più complessa) sarà la nostra comprensione del ruolo della parola in Mr. Robot e, soprattutto, nella produzione audiovisiva in generale.
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Verbocentrismo del cinema sonoro
Mr. Robot intreccia le sue quattro stagioni intorno alle vicende di Elliot Alderson (Rami Malek), hacker affetto da depressione, sociofobia e disturbo dissociativo dell’identità, impegnato nella titanica impresa di destabilizzare l’oppressivo sistema finanziario del neoliberismo statunitense. Giunti alla quarta e ultima stagione, gli spettatori sono ormai abituati agli esperimenti tecnico-formali proposti dalla serie: basti ricordare la lunga introduzione al sesto episodio della seconda stagione, sviluppata nello stille di una sitcom statunitense anni Novanta, o il piano-sequenza la cui durata risolveva l’intero arco narrativo del quinto episodio della terza stagione. E, tuttavia, l’ultimo esperimento di Mr. Robot ci offre un’importante occasione per ragionare su un punto fondamentale della produzione audiovisiva: ciò che Michel Chion, quasi trent’anni fa, definiva come il vococentrismo e, in particolare, verbocentrismo del cinema sonoro.
Secondo Chion, caratteristica essenziale di grandissima parte dell’audiovisione è la centralità della voce umana e, in particolare, della voce che si esprime verbalmente. Non solo, nella maggior parte dei casi, la dimensione sonora delle rappresentazioni audiovisive pone la parola al centro delle nostre esperienze di ascolto, assicurandosi che essa sia udibile sopra ogni altro suono, ma le esperienze audiovisive stesse acquisiscono significati precisi solo grazie all’intervento della parola: il significato di immagini e suoni necessiterebbe dunque di una costruzione mediata dalla parola.1 Sorge, quindi, un interrogativo: se 405 Method Not Allowed si sviluppa al di là della parola sonora, siamo forse al cospetto di un prodotto audiovisivo che scardina uno dei capisaldi della rappresentazione cinematografica? Una breve analisi di due scene dell’episodio possono venirci in aiuto.
Schermi negli schermi, la mediazione in Mr. Robot
Nonostante l’assenza di parole sonore, i dialoghi, nel corso della puntata, sono almeno tre. Come? Grazie a un diverso tipo di mediazione: visiva, invece che sonora. Più precisamente, i dialoghi in questione vengono proposti in forma di messaggi di testo: parole scritte, schermi telefonici. Prendiamo, a esempio, il primo di questi dialoghi: Krista, l’ex psicologa di Elliot, discute con il suo compagno – Jason – su come trascorrere il Natale. L’intera conversazione è proposta allo spettatore sullo schermo (schermo nello schermo) del telefono di Krista: la macchina da presa (d’ora in poi, mdp) ce ne mostra il dettaglio con una soggettiva, dandoci la possibilità di leggere le parole scambiate dai due. Tale conversazione, così mediata, funziona senz’altro come utile promemoria: assenza di parlato non significa assenza di comunicazione.
Tuttavia, perché? Perché sviluppare questo e gli altri dialoghi dell’episodio tramite visualizzazioni di parole scritte? Perché i personaggi di Mr. Robot, tutt’a un tratto, non possono più parlare («can’t talk» scriverà laconicamente un altro dei personaggi, nel tentativo di troncare una conversazione indesiderata)? Un’ulteriore e conclusiva analisi scardinerà ora qualsiasi dubbio. Questa volta, nessun dialogo.
Il fantasma di un’azione
Elliot e Darlene—hacker altrettanto talentuosa, nonché sorella del primo—si apprestano a penetrare in un edificio che ospita server contenenti informazioni di vitale importanza. Mentre Darlene distrae un addetto alla sicurezza (ovviamente, senza parlare, o con parole che l’occhio/orecchio della mdp non è presente per vedere/sentire), Elliot si lancia in un azzardato ingresso. Un carrello a precedere attacca sul giovane hacker, riprendendolo mentre entra dalla porta principale. Il carrello prosegue quindi perdendo momentaneamente di vista Elliot e conclude il suo movimento sul “primo piano” di un monitor, posizionato sul banco dietro al quale siede l’addetto alla sicurezza (ancora distratto). La mdp si sofferma, senza stacchi, sul monitor: inquadratura nell’inquadratura, lo schermo mostra l’immagine di Elliot, intento ad attraversare l’ingresso, non visto se non dalle telecamere di sicurezza.
Il movimento della mdp prosegue, stavolta con una panoramica orizzontale che porta i nostri occhi su un secondo monitor, entro il quale scorgiamo il compimento dell’intrusione di Elliot, per poi concludere su Darlene, consapevole di aver portato a termine con successo la prima parte di un complesso piano.
Ancora una volta, fatidicamente: perché? Perché sviluppare un ingegnoso, lungo piano, sprovvisto di stacchi di montaggio, per mostrare il fantasma di un’azione, l’immagine dell’immagine, lo schermo nello schermo, la mediazione della mediazione? Ecco le risposte.
In Mr. Robot tutto tace: non ci resta che spiare
Mr. Robot non è solo la storia di un hacker e della sua lotta contro il sistema. Forse ancora più interessante è il discorso, sviluppato da Mr. Robot, intorno a un’identità complessa – quella di Elliot – e alle modalità in cui un altrettanto complesso sistema tecnologico, con le sue stratificazioni socio-culturali, media e costringe tale identità. Se, tuttavia, l’apparato tecnologico media la nostra esperienza del reale, l’oggetto audiovisivo media la mediazione: rappresenta, tramite suoni e immagini, una realtà già tecnologicamente mediata.
Evitando di anticipare snodi fondamentali della serie, possiamo parlare di Mr. Robot come della storia di un mondo interiore frammentato. Rispetto a tale interiorità, la posizione degli spettatori muta continuamente: inscindibilmente dipendente dall’occhio/orecchio della mdp (e da tutte le “protesi” con cui la post-produzione trasforma tale occhio/orecchio), la nostra partecipazione al tortuoso percorso di Elliot, con e attraverso il suo mondo interiore, si nutre di ciò che ci viene permesso di sentire e di vedere. Se, talvolta, può sembrare che la mdp ci mostri più di quanto Elliot stesso sa, puntualmente la nostra presunzione di conoscenza viene smentita o complicata da informazioni che solo Elliot può comunicarci. In tale contesto, pendiamo dalle labbra di Elliot: la voce fuori campo di Rami Malek diviene veicolo per eccellenza di comunicazione, di identificazione empatica fra personaggio e spettatore. Eppure, Elliot ha smesso di parlarci ormai da qualche puntata. Ora, Elliot tace del tutto.
Allo spettatore, dunque, non rimane che un’unica possibilità: spiare. Il nostro occhio/orecchio non ha più la possibilità di guardare e ascoltare “direttamente”. Spiamo Elliot dagli schermi (schermi negli schermi), dalle telecamere di sicurezza che ne lasciano trapelare l’immagine, dai monitor dei telefoni che ne mostrano le parole in forma di messaggio. Cerchiamo Elliot da lontano, nei campi lunghissimi entro i quali quasi si perde la sua rocambolesca fuga dalla polizia, durante il finale della puntata. O, ancora, lo osserviamo dietro vetri, spesso inconsapevoli della nostra lontananza, della nostra assenza dai luoghi dell’azione, fino a che uno zoom non arretra il nostro sguardo. Non sono i personaggi di Mr. Robot a non poter parlare, siamo noi spettatori a non poter ascoltare.
«We don’t have to talk» è solo una frase di cortesia, volta ad alleviare il dispiacere di essere stati esclusi dal mondo interiore di Elliot. L’assenza della voce verbale non è altro che una riaffermazione della centralità della voce verbale stessa: come partecipare alla narrazione quando tutto tace? Come fruire dell’audiovisione senza la nostra amata voce-guida?
Verbocentrismo oltre la dimensione sonora
La domanda (e la risposta) che avevamo lasciato in sospeso all’inizio di questo scritto sarà senz’altro risultata sciocca a chiunque conosca, almeno un po’, l’affascinante mondo della scrittura audiovisiva: una sceneggiatura che riporti unicamente le parole sonore di una scena non è certo una sceneggiatura, bensì una trascrizione dei dialoghi. Di norma, una sceneggiatura includerà indicazioni riguardanti luoghi, tempi e azioni. Inoltre, a seconda dello stile della sceneggiatrice e della natura della sceneggiatura, il testo potrà dilungarsi più o meno nel descrivere le caratteristiche dei luoghi e dei personaggi, nonché i movimenti di questi ultimi, o addirittura scelte inerenti le inquadrature da adottare (a rischio di sconfinare nella regia…). A che pro, dunque, chiedersi se la sceneggiatura di 405 Method Not Allowed possa essere contenuta in un singolo post-it?
L’intento vorrebbe essere quello (un po’ pretenzioso forse) di astrarre: dalla “silenziosa” mediazione della mediazione di Mr. Robot al ruolo della parola nella mediazione audiovisiva in generale. Se la sceneggiatura di un prodotto audiovisivo contenente due sole, brevi linee di dialogo è lunga più di un post-it (numerose pagine, con ogni probabilità), allora ne dobbiamo concludere che l’intuizione di Chion circa il verbocentrismo dell’audiovisione va ben oltre la dimensione sonora della rappresentazione cinematografica. La parola, cioè, non è al centro dell’esperienza audiovisiva solo quando presente in quanto suono.
La parola struttura pervasivamente tanto la nostra comprensione quanto la nostra creazione della rappresentazione audiovisiva. Da una parte, in quanto la cerchiamo costantemente mentre siamo spettatori e, se ne siamo privati, scriviamo lunghi testi sul perché di tale privazione. Dall’altra, perché ne usiamo copiosamente per sviluppare una rappresentazione che si vorrebbe sprovvista di dialogo e scriviamo lunghe sceneggiature anche quando non ne avremmo bisogno, in quanto sono solo suoni e immagini che vorremmo costruire. Non possiamo, dunque, che concludere con un’ulteriore domanda: può esistere audiovisione al di fuori della parola?
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Note
1. Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2001, pp. 15-17.