Il silenzio del cinema italiano contemporaneo in materia di politica è tombale: non è solo rarissimo il film su avvenimenti politici, con nomi, date e fatti, lo è ancora di più il film su questioni vicine a noi. Emblematico è che a girare Berlinguer. La Grande Ambizione sia stata una squadra di “giovanissimi” che il segretario del PCI lo hanno conosciuto solo tramite i libri di storia: Andrea Segre alla regia, Iosonouncane e Daniela Pes alla colonna sonora, Elio Germano nel ruolo del titolare leader comunista.
Pare che l’Italia non sia ancora pronta a superare certi traumi del passato e che sia ripiegata su sé stessa nel rimuginare su “quel che era” piuttosto che sul quel che è e che sarà; primo fra tutti questi incubi ricorrenti, è il rapimento di Aldo Moro, che torna con La Grande Ambizione nelle sale per la terza volta nel giro di due anni –Esterno Notte (2022), Il Tempo che ci vuole (2024)- a perseguitare la coscienza di quell’Italia che la tragedia la visse in diretta.
E per quanto la filmografia di Segre sia fra le più solide degli ultimi tempi, La Grande Ambizione parte appesantito da una serie di caratteristiche che impediscono al film di esprimere la sua piena potenzialità.
Berlinguer. La Grande Ambizione e il lavoro d’archivio
L’aspetto certamente più affascinante de La Grande Ambizione è l’insistere del suo regista sulla nozione di Storia: il periodo qui analizzato segue la vita di Enrico Berlinguer dal 1973 al 1978, dalla caduta del Cile democratico di Salvador Allende alla morte di Aldo Moro, in quello che è un ciclico racconto di morte; in entrambi i casi, Berlinguer sarebbe potuto essere al posto dei due assassinati.
La vita del segretario comunista è difficile materia da mettere in scena: l’uomo privato, il padre di famiglia e il marito, sono dimensioni nelle quali Berlinguer sarebbe parso ai più un comune e noioso individuo.
Raccontare la sua vita significa piuttosto narrare la Storia del mondo: per questo ne La Grande Ambizione Andrea Segre rinuncia quasi in toto all’approccio Bellocchiano -fatto di incubi, manie e intime pulsioni-, impedendo al Berlinguer di Elio Germano di rimanere solo in scena; la sua prospettiva è sempre mediata da quella di chi condivide lo spazio con lui, in un estremo atto di collettivizzazione del punto di vista filmico. In altri termini, non ci è mai concesso di sbirciare nella mente, nei silenzi di Berlinguer.
A sopperire a questa freddezza cinematografica -comunque cifra stilistica di Segre, altrove usata con più efficacia- subentra l’interpretazione di Elio Germano che, come fu per Antonio Ligabue in Volevo Nascondermi (2019), scompare nel ruolo; paragone ancora più appropriato sarebbe quello con Pierfrancesco Favino in Hammamet (2020), “un grande Craxi, per un piccolo film.”
Berlinguer. La Grande Ambizione non è “oggetto morto” come il film di Gianni Amelio, quando ricorre agli stilemi del documentario: nomi dei personaggi mostrati a schermo, un insistente utilizzo di filmati d’archivio e accurate ricostruzioni storiche sono la strada più sensata -e forse meno audace- da far percorrere ad un film del genere. Eppure il lavoro di Andrea Segre prova sinceramente a costruire una riflessione sul valore della storicizzazione di questi avvenimenti: inserendo costantemente immagini di repertorio, il regista vuole ricordarci che quello a cui stiamo assistendo è storia, passata e digerita dagli anni.
L’emozione che nasce dalla visione di Berlinguer. La Grande Ambizione ha origine da come Segre abbia saputo maneggiare questi avvenimenti ben noti e attualizzarli con il montaggio e la selezione contenutistica: non è casuale assistere a studenti manganellati, kefieh indossate al collo e ambizioni schiacciate. Certo, viene da chiedersi se il merito di questa inesauribile attualità del patrimonio archivistico nazionale sia da imputare al regista o al fatto che l’Italia su certe questioni non si è mossa di un millimetro da dove era negli anni ’70.
Cinema politico o cinema sulla politica?
Come scritto nelle prime righe, è evidente che l’Italia non riesca più a narrare la contemporaneità politica: anche Berlinguer. La Grande Ambizione, per quanto spezzi la lunga catena di titoli privi di diretti riferimenti ai nomi del potente di turno (Il Caimano, Il Divo, Loro, Hammamet…), non riesce a sottrarsi dal ripercorrere la storia d’Italia; vero è che di film su Berlinguer non se ne sono fatti molti: una manciata di documentari e l’iconico Berlinguer, Ti voglio bene (1977), ma nulla che decidesse di raccontare tramite la finzione direttamente la vita dell’uomo e del politico.
Purtroppo, vista questa freddezza storicista di cui vive Berlinguer. La Grande Ambizione, verrebbe da pensare che il film di Segre più che politico sia sulla politica: non tanto una riflessione sul valore degli ideali per cui combatteva Berlinguer, o su come la sua esperienza di militanza abbia tuttora ripercussioni sulla nostra vita, quanto un ben organizzato riassunto di date e nomi. Piacevole da seguire, informativo e, vista l’ignoranza generale in materia, certamente necessario, ma privo di reali spunti che riescano a smuovere il trasporto dello spettatore. Generalmente è grave quando i filmati d’archivio, in questo caso i celeberrimi funerali del leader di partito, sono la parte più coinvolgente del film.
Eppure non tutto è da buttar via: un riassunto facilmente fruibile è sempre ben accetto e soprattutto le caratteristiche registiche -camera a mano alternata a grandi totali di incredibile fissità, illuminazione sommessa e grande semplicità della messa in scena- di Berlinguer. La Grande Ambizione consentono di condividere una più ampia riflessione sul lavoro di Andrea Segre. Se queste scelte artistiche hanno leso il prodotto finale in questione, va riconosciuto che in passato hanno invece reso indimenticabile altro dello stesso autore.
L’Ordine delle Cose (2017) continua ad essere un film di una brutalità feroce, veicolata proprio tramite la chirurgica freddezza della sua regia. Segre con quel capolavoro ci ha regalato uno dei pochissimi esempi di film politici contemporanei, intento a smascherare il gelido processo burocratico con cui l’Italia e l’Europa firmarono il “Decreto Minniti” per la gestione della crisi migratoria. Questo stile asettico può funzionare nel raccontare storie di collettività e di potere, ma certamente Berlinguer. La Grande ambizione non coinvolge e ammutolisce come invece fa L’Ordine delle Cose, forse proprio per la distanza temporale che c’è fra gli avvenimenti del film ed il pubblico.
Si può solo sperare che Andrea Segre torni a puntare la sua camera verso di noi e verso le nostre responsabilità, sempre con questo conturbante distacco, ma mettendo al centro l'”è” e non il “fu.”
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Non condivido affatto il giudizio dell’autore su questo film. Non c’è alcun dubbio che la narrazione di Segre su Berlinguer sia anche un film sulla politica. C’è nostalgia in chi come me, ha guardato il film avendoli vissuti quegli anni, nostalgia per quella politica, come passione e ragioni collettive. Inevitabilmente anche nostalgia anche per il tempo perduto della giovinezza. Ma questo film è anche un ritratto storico di un’epoca, vivo, delicato e drammatico, per nulla stereotipato. Ed è anche n film commovente. Peccato che lei non si sia commosso. Grazie davvero ad Andrea Segre x i suoi bei film.
“Berlinguer. La Grande Ambizione” non coinvolge? Non ammutolisce? La mia “esperienza” del film è tutta diversa. Certo, avverrà come per i libri: che metà dell’opera la fa il lettore (lo spettatore) e in questo caso, forse, un po’ perfino la sala di visione in relazione alla percezione della forza del film.
Andrea Segre non aveva neanche 8 anni quando è morto Berlinguer. Quindi Ber-lin-guer allora sarà stato per lui appena un nome un po’ strano sentito dalla voce del telegiornale nel sottofondo sonoro di casa. Possiamo perciò escludere che nel suo film giochi un ruolo quella nostalgia infida che travisa e confonde spesso il ricordo degli anni pieni della giovinezza. Il suo film è uno studio nel senso più alto e originale (cioè etimologico) del termine, pieno di “aspirazione”, guidato dall’atto che vuole proprio estrarre un’aria da un luogo.
«Ma è un film molto didascalico!». Sì, è didascalica la precisa fedeltà documentaria che usa molte scene d’archivio; didascalica la meticolosa indicazione del nome reale di ogni personaggio; didascalico perfino il taglio temporale, i cinque anni dal 1973 al 1978. La circostanza della morte, le folle, le bandiere, le lacrime sarebbero state un piatto succulento per un racconto costruito sul cedimento emozionale, invece vengono con intelligenza tagliate via, come per estrarre dal lavoro il condensato del senso biografico e politico di una vicenda, il gheriglio di una vita e di una storia. Didascalica la decisione di farlo, didascalico tutto. Ma insegnare è il compito necessario e benedetto dei maestri.
Gli addetti ai lavori sanno illustrare i motivi della forza o meno di questo film, della bravura di Elio Germano “rinato” Enrico, tutti i motivi per andare eventualmente a vederlo. Ma ce n’è uno ulteriore, piccolo e ulteriore, che loro non sanno: il silenzio alla fine.
Sempre succede così: svanita l’ultima scena, tutti resistono ancora sì e no tre secondi, giusto sul “Regia di… con…”, poi comincia il trambusto, tutti vogliono passare, tutti se ne vanno, ti pestano i piedi. Qui invece cala il silenzio. Scorrono i titoli, gli attori principali, poi quella interminabile scia bianca di nomi che nessuno legge, direttore della fotografia, segretario di edizione, casting, fonico, microfonista, costumista, macchinisti, elettricisti, truccatori… Non si muove nessuno. Nella sala si è fatto un silenzio denso e totale. La gente non si alza. Sarebbe bello vedere, sceneggiare un’ultima inquadratura “extra opera”, vedere cosa avvenga in quel silenzio. Non si sa. Ma sarebbe un bel finale vedere se lì (che lì) nel silenzio covano le due battute del comizio che il film verso la fine mette in scena.
«Rapporti di tipo nuovo fondati sulla solidarietà, di questo la gente ha sete».
«Noi andremo avanti con ancora maggiore determinazione, slancio ed audacia».
In un minuto tutta la “didascalia” che serve per un’azione politica, e forse anche per il senso di una vita.