L’ultimo, dimenticabile, film natalizio targato Netflix è un prodotto sfacciatamente confezionato per il pubblico adolescenziale. Tratto da un romanzo di John Green (autore culto della generazione Z), esso mescola amori inconfessati a urticanti dosi di felicità, riproponendo lo schema – stancamente usurato – della commedia sentimentale tenuta in piedi grazie all’ambientazione, ruffiano espediente per arginare il flop. Tuttavia, non è della reale qualità dell’opera che qui interessa discutere. Piuttosto il titolo – con relativa traduzione italiana – si mostra ben più foriero di riflessioni stimolanti: Let it snow. Innamorarsi sotto la neve.
La neve come metafora
Let it snow. Innamorarsi sotto la neve (Luke Snellin, 2019) contiene già gli elementi essenziali per mettere a fuoco quello che ai più, in virtù di innegabili cause stagionali, appare “invisibile” perché banale, atavicamente sedimentato nell’immaginario comune. La neve, fenomeno transitorio e mutabile, assume un valore simbolico di rara stabilità, connesso com’è – nella nostra memoria – a una costruzione narrativa del reale che risponde, coi suoi punti fermi, a un disarmante bisogno di durevolezza.
Delimitazione di campo
Il bianco fioccare come costante tematica del Natale non è certo prerogativa del racconto filmico, tanto più che la summenzionata opera di Snellin ricalca il titolo della celebre canzone scritta da Sammy Cahn nel 1945. Musica, letteratura e televisione appaiono accomunate dall’utilizzo di una metafora che travalica i confini del mezzo imponendosi come base certa da cui ri-partire.
Circoscrivere l’oggetto della trattazione al campo cinematografico obbedisce a un doppio ordine di motivi: da un lato vi è una questione di mera praticità – occuparsi di tutto è impossibile –, dall’altro la consapevolezza della forza d’impatto generabile dalla visione filmica.
Coca-Cola e immaginario
È senz’altro vero che ampie zone del nostro immaginario natalizio sono state plasmate dalla Coca-Cola. Nicola Lagioia, in un arguto saggio di qualche anno fa, mostra come l’attuale reincarnazione di Babbo Natale altro non sia che l’esito di un riuscitissimo processo di brandizzazione capace di soppiantare simboli e rappresentazioni di più antica tradizione [1]. Il pasciuto signore, tuttavia, non è che una parte dell’ampio serbatoio tematico cui il cinema attinge per le sue rappresentazioni.
«Love Actually», il natale del Cinema
Ne è esempio lampante lo stracitato Love Actually (Richard Curtis, 2003), costruito su una connessione continua di personaggi che esplicitano il proprio amore nel periodo natalizio. Lontano dalla finzione più propriamente fiabesca, il film prescinde dalla presenza di Santa Claus e, riproducendo senza infingimenti l’atmosfera consumistica del suo tempo, si concede il lusso di condire una delle sue scene più note (quella in cui Billy Mack registra una cover di Love is all around) con spruzzate di neve artificiale.
Il grado zero dell’immaginario?
È il bianco elemento a rappresentare il punto intorno a cui ruotano tutte le narrazioni di e sul Natale, e la questione è tanto più interessante se si considera la difficoltà di risalire a un grado di zero di tale immaginario, di certo qui più sfuggente e oscuro rispetto all’area abitata dal Babbo Natale vestito di rosso.
Il classico La vita è meravigliosa (Frank Capra, 1946), più che costituire l’origine dell’equivalenza, rappresenta semmai il piano su cui misurare la capacità di tenuta delle opere successive, intessute di omaggi (in)volontari all’abbacinante chiarore dell’atmosfera capriana.
«Le rêve de Noël», primi incontri tra Cinema e natale
A ben vedere, la levità surreale dell’ambientazione giunge al regista da suggestioni già attivate in precedenza da Le rêve de Noël di Georges Mèliés (1900), cortometraggio articolato in sezioni tenute assieme da una sospensione spazio-temporale resa evidente dal candore abbacinante della neve. Qui la funzione simbolica dell’“oggetto” si mostra nel pieno della sue possibilità andando a caratterizzare, verso il finale, una sequenza di danza gioiosa sotto i fiocchi che cadono dal cielo.
La danza e la neve
Impossibile non pensare, allora, al suggestivo passaggio di Edward mani di forbice (Tim Burton, 1990) in cui Kim (Winona Ryder) balla estasiata sotto una pioggia di scaglie di ghiaccio prodotte dal lavoro di scultura del protagonista (Johnny Depp). La danza stessa, nota Barbara Aronica, si pone come «movimento analogico» dell’ondeggiare dei fiocchi «che vibrano nell’aria», capace d’istituire una corrispondenza di forte impatto tra ballerine vestite di bianco e grani di neve [2].
Non è un caso che Lo schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1891-92) si sia affermato nel tempo come balletto simbolo delle festività natalizie, rivisitato peraltro negli anni in una serie di versioni che includono il cartone animato come concretizzazione della metamorfosi della fiaba.
La fiaba come guida per il cinema di Natale
Con i suoi disegni e forme similari (prime fra tutte le ombre cinesi) il cartoon consente infatti di trasfondere sul piano filmico il magma degli stupori dell’immaginazione, permettendo così agli uomini di visualizzare – anche involontariamente – le costruzioni della propria sensibilità.
Vito Pandolfi ricorda come la fiaba funzioni da guida per la scoperta della realtà, rimandando – «per via dei suoi meravigliosi avvenimenti» – a quelle prime sensazioni infantili in cui si sperimenta l’intera vita [3].
Cartoon e vie d’accesso all’immaginario
La narrazione fiabesca è del resto fortemente amata dal pubblico adulto, suggestionato non a caso dall’animazione come certezza di autenticità, dinnanzi a cui «abbandonarsi ad una gradevole fiducia». Rendendo visibili le proprie stupefazioni, il cartone consente allora – quale fiaba moderna – di penetrare nelle zone ambigue dell’immaginario, restituendo quel desiderio di ritorno all’infanzia che è poi bisogno di purezza e lontananza dal mondo.
Natale e neve al cinema come simbolo di purificazione
In questo senso, allora, il fenomeno della neve è perfetta metafora di un candore liliale che si avverte perduto, ricostruzione – circoscritta e temporanea – di una stagione in cui era possibile sottrarsi alle storture del quotidiano.
L’acqua quale elemento purificatore è del resto simbolo assodato del ritorno all’utero materno, e i fiocchi – nient’altro che il prodotto del congelamento – si prestano a una raffigurazione perfetta di tale nascosta urgenza. Le stesse palle di vetro con neve propongono, a ben pensarci, una ricostruzione in scala ridotta di un mondo sospeso, una sorta di bolla da cui lasciar fuori le contaminazioni del quotidiano.
Conclusioni
Assumendo tale prospettiva, l’equivalenza narrativa Natale – neve non appare certo puramente casuale, anche laddove il ricorso al suo portato simbolico s’inserisce in un mero cliché rappresentativo.
Che si manifesti mediante perturbazione o come coltre imbiancata, l’“effetto neve” costituisce il punto di coagulazione di immagini e forme difficilmente ordinabili a livello della coscienza. In tale concettualizzazione non vi è alcuna pretesa di fissazione, né appare evidentemente esaurita l’indagine semantico-visuale sul tema in questione. Ciò che appare più interessante è la possibilità di individuare porte d’accesso a un immaginario pacificamente accettato, serbatoio di sensazioni e pulsioni di mai scontata problematicità.
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Note
[1] cfr. N. Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario, Roma, Fazi Editore, 2005.
[2] B. Aronica, Riflessioni sull’oggetto neve, in “Fuori Schermo” (verificato il 17 dicembre 2019).
[3] Cfr. V. Pandolfi, Metamorfosi della fiaba e visioni popolari, in Id., Il cinema nella storia, Firenze, Sansoni, 1959, pp. 254-64.