Earth Mama è un esordio che trascina con sé il proprio bagaglio, una storia dalle maglie allentate, scritta tra gli spazi lasciati vuoti dalle pagine di vita del precedente The Heart Still Hums. La continuità con il corto-documentario diretto da Savanah Leaf (insieme a Taylor Russell) è morbidamente ribadita dalle sue donne protagoniste e da una direzione di messa in scena che avvolge, con partecipazione e rispettosa distanza, il realismo sociale di maternità difficili. The Heart Still Hums entrava dentro la rete di sicurezza di due organizzazioni di Sacramento votate all’aiuto di madri sole ed emarginate, Earth Mama finzionalizza il racconto di una qualsiasi di quelle madri, lasciandole in dono una commovente dignità.
Fuori concorso al Festival di Torino, Earth Mama di Savanah Leaf è uno scorcio delicato su una ferita impossibilitata a sanarsi, vittima di un isolamento feroce e forzato, che più richiede aiuto e meno viene rimarginata. Savanah Leaf scardina gli usci del circolo vizioso di riabilitazione e ricongiungimento familiare di una mamma e dei suoi bambini con una lente narrativa priva di moralismi, contemplativa nell’adesione drammatica e analitica nel documentarismo – critico – di un sistema assistenziale che costringe le sue donne a un eterno e infernale fallimento. Madri single, senza una famiglia alle spalle, con pochi soldi e tante fragilità. Madri consapevoli dei propri errori, avvinte dalle sofferenze e arenate in un meccanismo avvelenato da un’irraggiungibile redenzione.
La dignità della colpa
Del passato di Gia (Tia Nomore) non ci viene svelato molto, siamo ormai alle note di chiusura quando scopriamo la sua età. Ha ventiquattro anni ed è mamma di due bambini, incinta della terza. Lo spettro di ciò che è stata è alluso dai brevi cenni sparsi qua e là nella storia, ma l’occhio di Earth Mama indugia sul presente esistenziale della ragazza, umanizzandone demeriti e rimorsi e universalizzandone la sensibilità. Così si svincola dalla retorica ed evita la demonizzazione, lasciando allo spettatore il compito, empatico, di formulare il proprio pensiero.
Narrativamente, Gia ha perso i suoi bambini a causa dell’abuso di droghe; Earth Mama ce la presenta un anno dopo, già macinata dalla contesa per la riconciliazione con la propria famiglia. Frequenta i corsi richiesti dalla riabilitazione, va a trovare i figli agli orari concordati. Dovrebbe lavorare di più per pagare le spese di supporto dei bambini, ma lavorando di più non potrebbe frequentare i corsi, sbugiardando il paradosso sistemico di un programma assistenziale pensato per non poter funzionare. Eppure Gia continua a provarci, spendendosi nella sola speranza di garantire ai suoi figli un futuro migliore, guarito dalle lesioni commesse. Aspira disperatamente a rimettere nelle sue mani le redini di un’esistenza definita, cullata dalla certezza che i propri cari sapranno ancora ricordarsi di lei.
Earth Mama, accogliere le solitudini
Tutti la chiamano Mama, incasellandola nell’unico ruolo che non può appartenerle. Earth Mama ci porta dentro di lei, sorvegliata da una regia che le sta sempre addosso e spesso la perde di vista. Alternando staticità a dinamismo, le strette inquadrature saturate da Gia la vedono continuamente decentrata. La sua emotività è accennata, essenziale, sottratta nei primissimi piani di un’interpretazione minimalista e straziante, incollata a un montaggio interno che accosta tutto il profilmico ai mutamenti degli stadi emotivi della sua protagonista.
Ogni piccolo movimento, ogni cambio di messa a fuoco, ogni dettaglio compositivo collabora all’evocazione, inclusiva, di un dolore che si carica di espressività nella sua puntualizzazione cinematografica. E quindi l’immagine di Gia è dissimulata, intermittente, spesso assente di controcampi, dondolata dolcemente dal getto ininterrotto di emozioni e pensieri che irrompono sullo schermo invitandoci a prenderne parte.
Earth Mama parla il linguaggio del dramma che descrive, ne penetra l’intimità e si serve dell’osservazione documentaristica per diventare testimonianza: dell’esperienza di Gia e di tutte quelle della comunità cui appartiene, siano esse complici della ragazza o controparti delle medesime storie. La complessità della materia si presta alla non risolutezza, consumandosi nella volontà di dare rappresentazione a chi è stata sottratta e di piegare a un’autentica accoglienza un mondo di laceranti solitudini.
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