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Eileen, l’amore fa impazzire

Eileen, un intenso thriller tra ossessioni ed emancipazione

6 minuti di lettura

Eileen è il secondo lungometraggio del regista britannico William Oldroyd, dopo l’acclamato Lady Macbeth con protagonista Florence Pugh. Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh, co-sceneggiatrice del film insieme a Luke Goebel, Eileen è un thriller psicologico a tinte noir, che segue il rapporto tra due donne, interpretate da Thomasin McKenzie e Anne Hathaway, in contrasto con la società in cui vivono, e per questo particolarmente affini, al di là delle apparenze, connesse a livello emotivo. Un rapporto che viaggia sull’esile filo dell’ossessività, nascondendo sfumature inquietanti.

Eileen è un film che racconta la repressione della propria protagonista e il suo squilibrio emotivo, conducendo lo spettatore all’interno di una tetra oscurità e costringendolo a ondivagare tra ambiguità e repulsione, fascinazione e sensualità. William Oldroyd si serve di un’estetica volutamente retrò, omaggia Alfred Hitchcock e realizza un film in cui la simbologia accompagna la narrazione verso un crescendo di tensione che, soltanto sul finale, sembra lasciare un leggero senso di incompiutezza.

Eileen e Rebecca, un rapporto controverso

Thomasin McKenzie e Anne Hathaway in Eileen

Ambientata nella Boston degli anni sessanta, la pellicola prende il nome dalla sua protagonista, Eileen Dunlop (Thomasin McKenzie), una giovana ragazza che lavora come segretaria all’interno di un carcere minorile e vive insieme al padre alcolista, prendendosene cura nonostante la sua scontrosità. Fin dalla prima inquadratura, si comprende quanto Eileen sia repressa, vittima di un disagio emotivo che sfoga soltanto con la propria immaginazione, tra desideri sessuali e immagini inquietanti, almeno fino a quando l’affascinante Rebecca Saint Joan (Anne Hathaway) inizierà a lavorare come psicologa all’interno del carcere, attirando immediatamente l’attenzione della giovane protagonista.

Femme fatale di straordinaria eleganza, Rebecca – evidente richiamo alla protagonista hitchcockiana per eccellenza, con la quale condivide oltretutto alcuni aspetti della caratterizzazione del personaggio – instaura con Eileen un rapporto piuttosto controverso, che sembra donare alla ragazza quella libertà e quell’emancipazione che le è sempre stata sottratta, ma rivela contemporaneamente una certa ambiguità. Cosa rappresenta Rebecca per Eileen? Da cosa è dettata l’attrazione della ragazza nei suoi confronti? Amore, desiderio o semplicemente ammirazione? 

È sul rapporto tra queste due figure femminili tanto agli antipodi quanto tuttavia equivalenti, che si sviluppa la narrazione della pellicola, ed è proprio tra le sue pieghe che si insinua un’inquietudine totalizzante, mentre tra le sue fessure sembra farsi spazio un male ormai incurabile, pronto ad assorbire entrambe. Quando Rebecca decide di fare una confessione alla ragazza, Eileen muta improvvisamente, sprofondando in un vortice di oscurità.

Prigionia ed emancipazione

Thomasin McKenzie in un'immagine di Eileen

Eileen racconta più di ogni altra cosa la repressione della propria protagonista, e lo fa servendosi di una simbologia ben definita, che arricchisce la narrazione e porta la pellicola all’interno di un contesto sociale. Quel senso di repressione e quel disagio emotivo che accompagnano la vita della giovane ragazza, interpretata splendidamente da Thomasin McKenzie, nascono infatti da una società patriarcale, e da una doppia metaforica prigionia a cui Eileen è costretta. La prima è effettivamente il carcere minorile in cui lavora come segretaria. La seconda è invece la casa in cui vive con il padre.

Quello squilibrio emotivo che vive in prima persona, si manifesta attraverso il pensiero ossessivo di uccidere se stessa o suo padre e l’ingresso di Rebecca nella sua vita coincide quindi con l’inizio di un percorso di emancipazione e di riappropriazione della propria libertà. Il momento della rivelazione è evidentemente il turning point della pellicola, quello in cui Eileen e Rebecca si sovrappongono per un attimo, per poi lasciarsi andare per sempre.

“L’amore fa impazzire”. Forse Eileen è realmente impazzita. Forse è sempre stata pazza. O forse invece, nel momento in cui, con la pistola in mano, affronta tutto ciò che fino a quel momento le ha reso la vita un inferno – metaforicamente -, è più consapevole che mai.

Mentre il fumo riempie la macchina di Eileen per l’ennesima volta, usciamo dalla sala con un leggero senso di incompiutezza, dovuto a un finale che mette volutamente in dubbio ciò che abbiamo visto fino a quel momento. Abbiamo assistito nuovamente a una macabra fantasia? Forse, in ogni caso, quel percorso di emancipazione è giunto a compimento.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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