Finalmente l’alba, in concorso all’80esima edizione del Festival di Venezia, è glorificazione della genuinità. Quella che si libera, ferma e chiara, di ogni nevrosi d’eccezionalità per lasciarsi fiorire nella più emancipatoria semplicità. Saverio Costanzo torna a Venezia con un budget importante (circa 30 milioni) e un’idea di cinema ancora una volta personale, scosso istericamente dalla mobilità inarrestabile di una lunga notte mondana, dove tutto sembra non doversi fermare mai, ma poi si arresta fulmineo. In una nuova alba, che sa di inizio, di respiro, sintesi e annichilimento di tutto ciò che è venuto prima.
Finalmente l’alba, a partire dal cinema
Mimosa (Rebecca Antonaci) ha ventuno anni, è figlia di una famiglia modesta, promessa sposa a un uomo per bene, con un lavoro onesto. Ha una sorella bellissima, figura ingombrante di un microcosmo che ne subisce forte la fascinazione. E quindi si accosta in disparte, non guarda la sua immagine riflessa, si relega nella ristrettezza dello spazio che le è concesso, in attesa del suo tempo e rannicchiata nei suoi timori.
Ha una passione per il cinema, le storie, gli attori; i ruoli dei suoi interpreti preferiti li conosce a menadito. Josephine Esperanto (Lily James), Sean Lockwood (Joe Keery) e Alida Valli (Alba Rohrwacher) sono le star su cui i suoi occhi si posano incantati, spostandosi meravigliati dallo schermo della sala a una realtà deformata da connotati tanto ampollosi quanto chimerici.
È l’occasione di un kolossal girato nella Cinecittà della sua Roma a innescare la prima scossa del terremoto che sconquasserà la realtà della giovane ragazza. Da comparsa, ammaliata dalla maestosità di un ingranaggio imponente come il cinema, Mimosa scala rapida ogni gradino della gerarchia brillante che sfiora rapida il suo cammino. Accerchiata, strattonata e usata a capriccio delle personalità con cui intreccerà le sue sorti nel corso della festa infinita di Finalmente l’alba.
Il riscatto dalla vanità
La successione degli eventi scorre frenetica, avviandosi dall’attenzione richiamata dalla sorella – è lei che viene vista per prima ed è a lei che viene proposto di apparire come comparsa- e poi distaccandosene completamente, facendone perdere traccia in nome di una storia lambita dalle viscere più tentacolari della vanità mondana e poi esorcizzata da una rinascita e un trionfo limpido di identità, essenzialità e maturità.
Finalmente l’alba muove la sua scacchiera di avvenimenti a un ritmo sincopato e ossessivo di cambi di scena, quasi a voler far perdere traccia della sua temporalità. Josephine, una magnetica e seducente Lily James, sembra folgorarsi subito alla vista di Mimosa: l’attira a sé, adulandola, invitandola a cena e poi trascinandola a quella festa stracolma di personaggi di spicco.
A metà della sua opera, in uno psicotico gioco di specchi, riflessi e deformità, Josephine lascia il timone a Sean. Se nella partita di sguardi, toni e accenti formali Costanzo iscrive la dicotomia tra le due donne, riversando l’una nella specularità dell’altra in un caleidoscopico rimbalzo di amicizia, inimicizia, attrazione e minaccia; in Sean lavora più semplice, costruendo un’individualità insicura, che trae esclusivo nutrimento nell’assorbire le buone energie, talentuose, di chi gli sta intorno.
Nella notte che fagocita i confini di Finalmente l’alba, Mimosa si scontra con sublimazioni di persone, figure bidimensionali che si aggirano nei salotti della villa assediando di pericoli la strada della giovane. Ognuno di loro, insieme al ventaglio vacuo e disperato di artisti, cerca di lasciare un segno su di lei, riscattandone nome, professione, personalità e storia. Come fosse solo uno dei tanti giocattoli della serata, da prendere, spremere e poi buttare via.
Eccezion fatta per Rufus Priori, interpretato da un italianissimo Willem Dafoe a sintesi di un’unicità positiva in mezzo al repertorio di macchie abiette che brulicano intorno alla ragazza.
Finalmente l’alba, un coming of age lungo una notte
Saverio Costanzo ha dichiarato di aver precedentemente pensato di incentrare il soggetto di Finalmente l’alba sull’omicidio di Wilma Montesi, il primo caso italiano di assassinio mediatico, e di aver poi ritrattato le sue intenzioni, ripartendo dalla cronaca nera per regalarle un diverso riscatto.
Quindi riparte da qui, imbastendo un climax vibrante di memorabili accadimenti, denudando la morale nascosta dietro ai lustri del divismo e de-costruendo la battaglia identitaria delle donne che dominano lo schermo. Con il suo tratto gotico, con l’autorialità che lo contraddistingue, sempre veleggiatrice di una voce che sceglie con cura le parole con cui esprimersi.
Della matericità dei regimi di realtà Finalmente l’alba fa il suo perno, dissolvendo i passaggi tra cinema e realtà in un’intersecazione che crolla su se stessa, lasciando sgombra la strada di un’unica tangibile e dignitosa verità. Sul finale Mimosa si guarda allo specchio, con quel coraggio ripescato da paure ammaestrate e scarcerate dalle proprie gabbie.
E allora il film non può che chiudersi in direzione contraria al suo incipit storico, scendendo le scale di un altro tipo di redenzione: la semplicità, fiera, di essere diventata donna. Il bello, il marcio, il vero e il falso del cinema rimangono indietro, incastonati dentro le quattro mura di una villa illuminata dai bagliori di un’alba che presagisce l’inizio di un’altra lunga notte. Sempre uguale, nell’infinito e vano loop della sua mediocrità.
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