Si può davvero pensare che, con Gli spietati del 1992, Clint Eastwood, che oggi compie 90 anni, abbia ottenuto le sue prime vittorie all’Oscar? Un ostracismo nei confronti di un attore – divo degli anni ’70 e ’80 difficilmente comprensibile.
O forse si può comprendere all’interno di un certo imbarazzo o sottovalutazione della critica, per quel genere così importante e decisivo per la storia cinematografica americana, e non solo, che è stato il western. Proprio gli anni ’90 hanno segnato la rinascita del genere, in via di scomparsa. Diverse pellicole hanno ripercorso, secondo nuovi stilemi o canoni, una tipologia di film che sembrava morta.
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La premiazione per Gli spietati rappresenta una sorta di ammenda retroattiva per l’indifferenza nei confronti dei lavori del passato, in particolare per Sergio Leone. La dedica finale del film «a Sergio e Don» mostra il debito che Clint Eastwood ha verso Sergio e anche Don Siegel, i due registi che hanno saputo apprezzarlo e lanciarlo.
Il film rappresenta anche un giro di boa per la carriera di regista. Da quel momento, dopo aver realizzato diverse pellicole mai passate al vaglio positivo della critica, inizia ad ottenere la visibilità e il riconoscimento meritato, consegnando nel nuovo millennio diverse opere luccicanti: Mystic River (2003), Million Dollar baby (2005), Gran Torino (2008).
Nella serata degli Oscar 1993 il film ha ottenuto quattro premi: Miglior film e Miglior regia a Clint Eastwood, Miglior attore non protagonista a Gene Hackman Miglior montaggio a Joel Cox.
«Gli spietati» – trama
Wyoming, 1880. William Munny (Clint Eastwood) è un ex pistolero, che vive solo con i due figli, dopo la prematura scomparsa della moglie. Decide di tornare in azione: L’occasione è la caccia, con l’amico Ned Morgan (Morgan Freeman) e il giovane Kid (Jaimz Woolvett), a un gruppo di cowboy che hanno sfregiato una prostituta. Su questi delinquenti infatti pende una taglia, che verrà pagata dalle amiche prostitute. Oltre agli ostacoli personali, come rimorsi di coscienza e anzianità, si frappone lo sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman), deciso ad impedire il massacro.
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Perdono ed espiazione
Il titolo originale del film (Unforgiven) introduce la tipologia di persone presenti. Una nomenclatura che pesca nei miti e nelle leggende di un tempo dove lo stato centrale era ben distante dalle regioni, e le piccole comunità avevano un codice di leggi assolutamente arbitrario. I protagonisti hanno un passato da farsi perdonare, che hanno sotterrato nel proprio giardino da coltivare o nella propria istituzione lavorativa.
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Ai protagonisti però non è data possibilità di un completo riscatto morale. L’unico motore della vicenda rimane l’omicidio, anche per quelli che avevano deciso di dismettere i panni del ladro o uccisore. Protagonisti però capaci anche di moventi positivi, come il rispetto di un codice antico di leggi o di una vendetta che riscatti la dignità di una prostituta sfregiata.
I personaggi si collocano in una zona grigia che non li assegna interamente all’inferno, come si immagina Little Bill Daggett (Gene Hackman) al momento della sua morte. Ma nemmeno in paradiso, considerato il proprio passato e l’impossibilità di ottenere il perdono. Diventa così, il film, un purgatorio di anime che trottano e anelano il proprio riscatto, la propria espiazione, mediante azioni e moventi che permettano loro di appacificare la propria anima.
Crepuscolo e narrazione
Durante Gli Spietati si respira l’aria melanconica di un passato ormai chiuso e non più riproponibile. Tutti i protagonisti ricordano e raccontano delle proprie turbolente peripezie con un velo di nostalgia. Lo fanno con una sorta di ritrosia, come se gli attori di vicende così note fossero davvero altri.
Beauchamp (Sal Rubinek), biografo prima di Bob «L’inglese»(Richard Harris), personaggio secondario della pellicola, e poi di Little Bill Daggett, svolge una funzione decisiva: attraverso gli occhi di questo personaggio, novello cantore, Eastwood smonta la verità mitologica del West, ma rende anche conto della necessità del racconto delle origini violente dello stato americano. I soggetti in questione, sempre ubriachi, non duellano per nobili principi, ma per gli istinti più bassi. La mitologia, tuttavia, è sempre frammista di verità e menzogna, e proprio da questa miscela si alimenta la leggenda. In questa contraddizione di specchi rotti, William “Will” Munny, tornando ad uccidere, non fa altro che inserirsi nuovamente nella catena della propria leggenda, lasciando il cantore Beauchamp senza parole, perché troppa verità non si può raccontare.
Eastwood attinge così tanto dalla mitologia western, ormai al crepuscolo, quanto dalla tragedia greca, in particolar modo quella omerica. Eroi e personaggi di un tempo troppo distante ma così decisivi per la modernità. Le storie reali si dissolvono, le figure umane sfumano, lasciando intravvedere solo in lontananza le proprie ombre, ormai entrate nel tempio della mitologia. Tutto in un tramonto che lascia un alone crepuscolare e nostalgico sulla vita che fu, che si ricorda e si racconta.
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