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Perché Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente è un grande sì

10 minuti di lettura

Francis Lawrence torna a regnare sul grande schermo dal 15 novembre, riportandoci in una Panem nuova, ma non troppo, con Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente. Riadattamento cinematografico del prequel firmato Suzanne Collins, veniamo qui catapultati nuovamente nel mondo distopico dei giochi che hanno reso la ribelle Katniss Everdeen simbolo di una generazione anche fuori dal fittizio.

Tom Blyth, Rachel Zegler, Hunter Schafer, Peter Dinklage, Josh Andrés Rivera, Jason Schwartzman e Viola Davis formano un cast perfettamente calato nella parte, che rende più vero e tangibile l’universo distopico di Panem.

Hunger Games, la trama

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Coriolanus Snow (Tom Blyth), prima di diventare il presidente tirannico interpretato da Donald Sutherland nell’originale trilogia, è uno studente dell’Accademia desideroso di vincere il premio Plynth, una borsa di studio che gli permetterebbe di proseguire gli studi e di salvare il nome della sua famiglia, caduta in disgrazia dopo la guerra. È la decima edizione dei giochi e nessuno li guarda. Si pensa allora di spettacolarizzare gli Hunger Games, introducendo un presentatore, brevi interviste ai tributi e, soprattutto, i mentori.

Snow è mentore di Lucy Gray (Rachel Zegler), distretto 12, e il suo scopo non è soltanto salvarla, ma renderla interessante, un’attrazione, uno spettacolo. Lucy Gray canta e ammalia il pubblico che le dà il suo favore, le invia soldi con cui, come ben sappiamo, il mentore può inviare regali nell’arena, che sono qui circoscritti ad acqua e cibo. Snow e Lucy Gray vincono i decimi Hunger Games, ma gli intrecci veri e intensi cominciano da questo momento: lei torna alla sua vita nel 12, ma anche lui viene spedito nel distretto come pacificatore, punito per aver mosso le sue carte slealmente.

Ma si sa, i giochi non si esauriscono mai nell’arena. E se fosse il mondo intero ad essere un’arena?

L’origine dei Giochi

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Suzanne Collins avrebbe potuto raccontare la backstory di chiunque e i fan sarebbero accorsi, soldi alla mano, in gran numero. A dieci anni dall’uscita dell’ultimo romanzo, Hunger Games – Il canto della rivolta (2010), nel pieno della pandemia, Hunger Gamesla ballata dell’usignolo e del serpente arriva inatteso e con sorpresa dei lettori sugli scaffali delle librerie. Non passano che pochi mesi e ne viene annunciato il progetto cinematografico.

Raccontare l’origin villain story è stata una mossa veramente ben studiata, perché insieme ai retroscena del personaggio più crudele della trilogia, facciamo un salto nel fango di una Capitol sfarzosa ma sporca dei residui della Guerra, una città che non dimentica e che, rancorosa, porta avanti il piano di sottomissione dei distretti.

Snow è una pedina in mano al primo stratega e direttore dell’Accademia, Casca Highbottom (Peter Dinklage), che gli dice chiaro e tondo che gli renderà la vita difficile e non gli consegnerà il premio in denaro tanto sperato. Gli viene affidata la ragazza del 12 come punizione, ma Coriolanus trasforma l’occasione in sfida e accetta la slealtà dei giochi, giocando a sua volta. È lui a proporre di trasformare il tutto in uno spettacolo televisivo, a suggerire le interviste per creare empatia nei confronti dei tributi. Fino a quel momento, gli Hunger Games altro non erano stati che atto violento, crudo e triste, sfoggio di potere di una Capitol che schiaccia i distretti.

L’arena si presenta spoglia, uno stadio bombardato, fatto a pezzi il giorno prima da ribelli che credevano di poter mettere così fine ai giochi e che invece hanno solo partecipato a rendere il tutto più interessante, grazie a buchi nel pavimento e condutture aeree che forniscono rifugio ai tributi, tenendoli in vita più a lungo. È facile intuire come questa edizione venga poi rimaneggiata nel tempo, fino ad arrivare alla 74esima, quella di Katniss Everdeen, in cui tutto è studiato, calibrato, spettacolarizzato al meglio.

Hunger Games, chi gioca con chi?

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Si prova empatia per Snow, si percepisce la sua difficoltà a destreggiarsi in un mondo che gli lotta contro, si sente la frustrazione ribollirgli dentro. Si guarda al futuro insieme a lui, affascinati dalla sua intelligenza e scaltrezza nel manovrare i Giochi e la vita di Lucy Gray; si soffre quando viene scoperto e punito. Ma tutto questo non avviene mai con totale fiducia ed è proprio qui che si nasconde il genio di Collins e Lawrence.

Lo spettatore sa benissimo chi è Snow, che cosa farà e quali atroci crudeltà infliggerà a chiunque incontri sul cammino e in Hunger Games – la ballata dell’usignolo e del serpente c’è sempre uno strato sottile come cristallo, scheggiato e fragilissimo, attraverso cui osservare il tutto. Nonostante l’intreccio amoroso, si ha sempre la sensazione di camminare su un filo.

I dialoghi tra Snow e Lucy Gray sono insipidi, tesi, trattenuti da quell’incapacità di fidarsi totalmente dell’altro. A più riprese viene mostrato, a volte celato altre più enfatizzato, il lato pragmaticamente crudele di Snow, che si lascia incantare da Lucy Gray solo quando capisce di avere in mano la concreta possibilità di vincere; che non lascia a nessuno accanto a lui la possibilità di adombrarne le capacità, sacrificando l’amico ribelle per le attenzioni della folle e perversa Capo Stratega Volumnia Gaul (Viola Davis). Il suo lato umano è sempre sovrastato dalla sfera razionale in collisione con l’istinto animalesco che lo porta ad uccidere tre persone nell’arco della storia.

Anche Lucy Gray, per quanto di poco spessore, è un personaggio diffidente, scaltro, che porta lo spettatore a domandarsi spesso se non sia stata lei, in realtà, a giocare con il suo mentore. I rimandi a Katniss Everdeen sono evidenti, ben sparpagliati lungo la trama, che è ricca di dettagli e easter eggs, come le rose bianche che puntellano lo scenario e abbelliscono Lucy Gray, la canzone dell’impiccato, le ghiandaie imitatrici usate come arma, come simbolo. È evanescente, com’è giusto che sia; come la meritocrazia e la giustizia di un mondo che punisce un unico errore più e più volte, al doppio della sua potenza.

Hunger Games – la ballata dell’usignolo e del serpente, sì o no?

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, un sonoro e deciso sì. Fedele al romanzo, con i suoi 157 minuti non annoia, mantiene un ritmo serrato e scandito dagli eventi, tiene viva l’attenzione del pubblico.

Lo spettatore è immerso visivamente e mentalmente nello spesso intrico di schemi e passi falsi, nello stendardo contro la disuguaglianza che è la serie degli Hunger Games. Si ferma a riflettere sulle parole di Highbottom, quando spiega che i Giochi sono il frutto di idee ubriache; rivede in Reaper, tributo 11, l’eco di Katniss, quando sopraffatto dalla desolazione, raggruppa i corpi degli avversari creando un cimitero di fortuna, che poi ricopre con la bandiera di Capitol, suscitando lo sdegno degli spettatori; ricrede alle parole di Snow-adulto, quelle che confida a Katniss quando ne intravede le fragilità, colorandole di nuovi significati: “sono le cose che amiamo di più a distruggerci“.

In questo gioco di rimandi e anticipazioni, di fiducia sottesa, sguardi sospetti e conversazioni origliate, le pedine sulla scacchiera sono al contempo re e pedoni, cacciatori e prede. Ma ci sono giochi peggiori a cui giocare.


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