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Il Re

Il Re, il prison drama con Luca Zingaretti non fa denuncia sociale ma intrattiene

9 minuti di lettura

A pochi mesi dall’uscita in sala di Ariaferma di Leonardo di Costanzo, si torna a parlare di carceri nell’universo dell’audiovisivo italiano. Stavolta, sul piccolo schermo, con Il Re, la nuova serie TV prodotta da Sky con Lorenzo Mieli per The Apartment e con Wildside, in collaborazione con Zocotoco. L’ambizioso progetto è un prison drama nostrano, che vanta la partecipazione di Luca Zingaretti nel ruolo del protagonista.

Otto episodi per raccontare i mille volti di una prigione fittizia, dove il confine tra Bene e Male si fa torbido e la sentenza finale è quella emanata dal direttore Bruno Testori (Luca Zingaretti). I primi due episodi sono andati in onda il 18 marzo 2022 su Sky Atlantic. L’intera stagione è stata diretta da Giuseppe Gagliardi (1992, 1993, 1994, Non Uccidere).

Il Re, un protagonista sfaccettato per conquistare l’audience

Il prison drama è un genere assente nel panorama nazionale italiano. Se all’estero hanno Orange is the New Black (Jenji Kohan, 2013-2019), noi cos’abbiamo? L’operazione di Sky è astuta, perché cerca di riempire un vuoto di mercato. Il Re, forte della presenza di un attore amatissimo come Luca Zingaretti, evita di creare una narrazione multistrato, fondata, ad esempio, sulle relazioni tra detenuti, e si concentra sul personaggio principale. Zingaretti traina la baracca, gestendo a meraviglia il Bruno Testori che è chiamato ad interpretare, riuscendo a scrollarsi di dosso quell’aria da commissario Montalbano che rischia di marchiarlo a vita (ammesso che non l’abbia già fatto).

Quello di Testori è un personaggio sfaccettato, con zone d’ombra evidenti fin dai primi minuti. Né buono né cattivo, è un uomo cupo, dallo sguardo severo, che amministra il San Michele, un carcere di frontiera dove, per sua stessa volontà, finiscono i detenuti più problematici e difficili da controllare. Su questo ha costruito una carriera. Se fuori sembra sciogliersi di fronte alla giovane figlia, appena scampata ad un cancro, e abbraccia con affetto l’ex moglie Gloria (Barbora Bobulova), all’interno del San Michele è il re indiscusso, fermo nelle sue decisioni.

È lui che comanda, più o meno legalmente, finché un omicidio non sconvolge l’equilibrio del penitenziario e richiama le attenzioni del PM Laura Lombardo (Anna Bonaiuto, preziosa aggiunta al cast perché perfetta per il ruolo). Cinica e testarda, Lombardo capisce subito che tra le mura umide del San Michele vige una legge speciale ed è intenzionata a fare luce sui recenti accadimenti.

D’altronde, Testori ha “una sua morale e una sua idea della giustizia”, come viene detto nella serie.

Non esiste una giustizia, esistono le persone e le circostanze. Io, alla sua giustizia di Stato, che riduce l’uomo al male che ha fatto senza sapere che cosa ci sia dietro né perché, non ci credo più.

Bruno Testori (Luca Zingaretti) nel secondo episodio di Il Re

La natura a volte contraddittoria e assolutamente impenetrabile di Testori (nascosta da un’abile, gelida poker face di Zingaretti) invita lo spettatore a volerne sapere di più. I misteri, gli indizi, le supposizioni tipiche di uno schema investigativo generano un sistema di attese che incuriosisce il pubblico e lo spinge alla visione di un altro episodio. In questo senso, Il Re, almeno per ora, riesce nell’intento di accalappiare una fetta degli spettatori in poltrona, garantendo un buon rapporto tra qualità dei contenuti e continuità narrativa.

Cosa aspettarsi dalla serie: parlare di carceri in Italia

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A chi si approccia alla visione di Il Re, ricordiamo: è un prison drama volto all’intrattenimento, non ha un approccio documentaristico né un fine politico o sociologico. Gli sceneggiatori Stefano Bises e Beppe Fiore hanno precisato che “il nocciolo tematico di questa serie” sia “una riflessione sui confini della giustizia, su quanto ci si può spingere oltre la linea d’ombra per realizzare quella giustizia fino in fondo, e in ultima analisi, su quanto il bene e il male, dal punto di vista del potere, finiscano per implicarsi a vicenda“.

Nonostante questo, in più momenti lo script non può chiudere un occhio di fronte all’esigenza di rapportarsi al reale: certi difetti, certe contraddizioni dello stare in carcere, a vivere o a lavorare, non possono mancare. Sono quelle problematiche che Ariaferma, spinta da obiettivi diversi, ha recentemente portato sullo schermo.

Il carcere in Italia non è un argomento innocente, è una sorta di fronte emergenziale permanente che in un modo o nell’altro ha fatto sempre da specchio a tutte le fasi cruciali della storia del Paese. Raccontarlo in maniera onesta implicava necessariamente il racconto della violenza, dell’abuso di potere, dell’integrazione interculturale, del discrimine sottile che esiste tra esercizio della pena e vendetta di Stato.

Dalla dichiarazione degli sceneggiatori Stefano Bises e Beppe Fiore

Mettere in scena il carcere: scenografie e costumi

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Se in Ariaferma lo spettatore veniva posto di fronte ad un’atmosfera sospesa nel nulla e ad attimi congelati, con Il Re dovrà seguire un andamento più movimentato, caotico. L’impostazione teatrale voluta da Di Costanzo nel suo film, qui sarebbe poco funzionale: il ritmo è più dinamico, la recitazione è da fiction televisiva.

Le luci stesse hanno una resa meno artificiale, le lenti anamorfiche permettono di costruire spazi chiusi ma non troppo claustrofobici, perché ci appaiono larghissimi. I luoghi interni al penitenziario (il set è stato, principalmente, l’ex complesso carcerario Le Nuove di Torino) sono tanti, si susseguono uno dopo l’altro e impariamo a conoscerli. Poi, è vero che c’è il San Michele, sì, ma c’è anche un mondo al di fuori di esso, e la macchina da presa lo inquadra volentieri.

Il carcere in questione non è perso nel tempo, però è avvolto da un gusto quasi retrò, che sa di qualcosa di vecchio e logoro. Un lavoro minuzioso è stato portato avanti per donare alla serie una palette riconoscibile. La scenografia (curata da Simona Taddei) ha fatto leva su colori come il celeste, il verde marcio, il grigio tortora, il marrone, il giallo.

Il direttore della fotografia Carlo Rinaldi ha giocato ad accoppiare obiettivi che hanno quasi cinquant’anni ad una macchina da presa di ultima generazione, così da ottenere un effetto vintage e sporco. Anche il comparto costumi, seppur limitato dalle divise di carcerieri e detenuti, ha voluto fare il possibile: i costumi sono stati sottoposti a trattamenti di invecchiamento, in modo da rendere credibile e sofferta l’esistenza di chi ha passato anni in una prigione.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

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