A concludere il ciclo di conversazioni del Cinema Ritrovato è stato il regista britannico Jonathan Glazer, intervistato dal direttore artistico Ehsan Khoshbakht. Il regista ha presentato anche il suo ultimo film, La zona d’interesse, in Piazza Maggiore il 29 giugno, giorno di chiusura del festival. Durante la conversazione, Glazer ha condiviso riflessioni riguardo la sua estetica cinematografica, soffermandosi sul rapporto tra immagine e suono, elemento centrale che ha permeato l’integrità della sua produzione artistica.
Chi è Jonathan Glazer
Nato a Londra nel 1965, Jonathan Glazer ha studiato sceneggiatura e regia teatrale all’università. Dopo aver lavorato come montatore in alcuni piccoli progetti per la BBC, verso la metà degli anni ’90 è entrato nel mondo dei videoclip musicali, dirigendo per artisti di fama internazionale come i Massive Attack e i Radiohead. Nel 1997 è stato nominato regista dell’anno agli MTV Music Awards. Parallelamente alla sua carriera nei videoclip, Glazer ha diretto anche spot pubblicitari per grandi marchi come Nike e Guinness.
Nel 2000 Glazer ha esordito nel lungometraggio cinematografico con Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia, un film gangster con forti elementi umoristici. Nel 2004 ha scritto e diretto Birth – Io sono Sean, con Nicole Kidman nel ruolo principale femminile. Nel 2013 Johnathan Glazer ha realizzato Under the Skin, un horror fantascientifico con Scarlett Johansson protagonista. Nel 2023 Glazer ha girato La zona d’interesse, che racconta la vita di Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film gli vale due Oscar, quelli per il miglior film internazionale e il miglior sonoro.

La conversazione con Jonathan Glazer
Qual è stato il primo film che hai visto? Sei sempre stato un grande appassionato di cinema?
Il primo film che ho visto è stato Grease. Il miglior film che abbia mai visto. No, non ero un grande appassionato. La mia conoscenza del cinema proveniva dai film che guardavo in TV con mio padre. Guardavamo film di Sidney Lumet come Quel pomeriggio di un giorno da cani. Mio padre era un grande appassionato di cinema, quindi in un certo senso trascorrevo del tempo con lui così, quasi ogni giorno, guardando film classici.
Erano per lo più film narrativi, non ero molto esposto ad altri tipi di cinema. Il gusto di mio padre era ottimo, ma piuttosto classico. Quindi il mio primo approccio al cinema è stato attraverso il cinema americano classico. Quando ero adolescente, non ero un cinefilo. Sono cresciuto in periferia, io e i miei amici eravamo più interessati a motociclette, skateboard e cose del genere.
Quando è stato il momento in cui hai visto un film e hai pensato: “Questo è qualcosa che non ho mai visto prima”?
È stato Oh Lucky Man di Lindsay Anderson, un grande regista britannico. Ricordo di averlo visto e di aver pensato che fosse un film quasi illecito, qualcosa di proibito, che non avevo mai visto prima. Mi ha scioccato e ha risvegliato qualcosa in me. È stato il primo film che mi ha veramente scosso. Il cinema britannico ha un lato più ruvido, più oscuro, che viene fuori soprattutto dopo la guerra.
Cosa è successo tra il periodo dello skateboard e la regia del tuo primo lungometraggio?
Ho frequentato la facoltà di giurisprudenza, ma nel frattempo ho iniziato a fare animazione in stop-motion e a disegnare fumetti. Da ragazzo non leggevo molto, ero più un appassionato di fumetti e mi piaceva disegnarli. Quando si tratta di cinema, fare scelte su dove posizionare la camera significa scegliere un punto di vista. Mentre disegnavo ovviamente non pensavo alla camera, ma a come raccontare diversi punti di vista. Le conversazioni con mio padre mi hanno fatto capire che il cinema poteva essere il mezzo giusto per me.
Ho poi iniziato a lavorare nella scenografia teatrale e ho tentato di entrare in una scuola di cinema, senza successo. Mi sono appassionato allo studio della luce e alla scenografia teatrale, apprezzavo la varietà e la disciplina del teatro. Ho iniziato a dirigere spettacoli di amici e ho scoperto di essere bravo a organizzare la mise-en-scène. Col tempo, ho definitivamente virato verso il cinema.
Cosa fai tra un lungometraggio e l’altro?
Realizzo cortometraggi, installazioni e progetti sonori, che spesso influenzano il modo in cui poi costruisco i miei film. Per me è fondamentale sentire un’urgenza creativa. È come se non potessi fare a meno di fare film.
Faccio degli schizzi che poi mi fanno arrivare al film vero e proprio, sono molto interessato alla forma cinematografica. Dedico molto tempo a pensare e prepararmi per il film che voglio realizzare, e poi procedo per tentativi. Non credo di dover girare un film ogni due anni, ma sono sempre in una fase di creazione. Non produco film solo quando sono sul set, il film lo faccio in mente molto prima, lo esploro, lo costruisco piano piano.
La zona d’interesse è un’indagine storica. Com’è stato il processo invece per un film come Under the Skin, c’è della parte di investigazione anche per fare un film come questo?
Parto sempre da un frammento, un’immagine o un’idea e costruisco intorno a quello. Per Under the Skin immaginavo come sarebbe stato realizzare un film su un alieno, e ho capito che il film doveva quindi rimanere alieno, estraneo a ciò a cui siamo abituati nel raccontare questo tipo di storie.
Non volevo ricostruire un mondo dettagliato attorno al personaggio, né mettere in scena un design alieno tradizionale. Ho evitato navi spaziali o effetti, volevo togliere tutto ciò per arrivare all’essenza. Mi sono appassionato all’idea di un film in cui appaiono queste intere schermane di nero, concentrandomi su ciò che è essenziale.
Hai cercato una particolare atmosfera girando in Scozia?
Il film si basa su un libro (Sotto la pelle di Michael Faber, nda), ma non si tratta di rifare il libro per lo schermo in senso stretto. Ero affascinato dal principio di “un alieno sulla Terra,” e da lì ho costruito tutto. Abbiamo usato piccole telecamere installate nel furgone, così Scarlett poteva muoversi davvero nel mondo senza interferenze.
Nei primi venti minuti la vediamo guidare il furgone, con le telecamere rivolte fuori dal finestrino, mentre nascosti dietro il furgone ci siamo io e la troupe. Davo a Scarlett delle indicazioni del tipo “gira di là, fermati a parlare con quel tipo,” ma alla fine iniziò a dedidere lei cosa fare, se girare a destra piuttosto che a sinistra; se una persona le piaceva e voleva fermarsi o se preferiva di no. È stato un momento magico da vivere in quanto regista: il film si scriveva da solo a seconda delle sue scelte, è stato un modo straordinario di lavorare.
Hai una vera e propria fissazione per non mostrare troppo. Specialmente con il suono, riesci a rivelare un gesto o un’immagine apparentemente semplice facendola spalancare in tutta la sua intensità
Se in un film qualcuno corre, o fa un’azione comune e quotidiana, non serve enfatizzarlo troppo: è una cosa semplice, la si mostra così com’è. I film che amo sono quelli che hanno bisogno dello spettatore per completarsi, che ti coinvolgono emotivamente. È come stare davanti a un dipinto: la tua presenza completa l’opera, partecipi emotivamente. L’esperienza si eleva solo se anche tu ti elevi davanti a essa.
Il suono è sempre tra i miei primi pensieri quando faccio un film, non è mai una cosa improvvisata. Ho passato anni a lavorare sul suono, scegliendo rumori reali, mixandoli per creare l’atmosfera. Non si tratta di fabbricare suoni, ma di selezionarli, di dipingere con il suono. l suono guida lo spettatore e deve essere curato come un colore nel quadro. Ne La zona d’interesse, per esempio, filmo i personaggi dietro un muro, e lo spettatore vede quello, ma sente tutto quello che loro scelgono di ignorare.
Suono, immagine, location… ma anche gli attori sono una componente importante, un “fenomeno” particolare. Come lavori con loro?
Amo lavorare con gli attori e non li lascio mai soli. L’attore è parte integrante della composizione del film. Spesso non sanno quanto siano importanti certi gesti o momenti, ma il regista lo sa. Nicole Kidman in Birth ad esempio per me è stata straordinaria. L’attore non arriva semplicemente sul set e sa come muoversi, si lavora insieme, attore e regista. Decostruiamo la scena e togliamo tutto ciò che è artificioso.
Mi piace mescolare attori con non attori. Posso passare anni a lavorare con non attori, per me sono così innocenti davanti alla macchina da presa, c’è una sensibilità nel modo in cui voglio che la scena sia. Metto più telecamere così non devo far ripetere un’azione, non voglio chiedere agli attori di rifare la scena, quindi registro da più punti di vista: tutto è archiviato in una sola ripresa, e con la seconda posso buttare tutto fuori e fare qualcosa di diverso; non sto cercando di nascondere degli errori rifacendo le scene, ma di creare qualcosa di nuovo.
Parliamo un attimo del finale de La zona d’interesse?
È nato la prima volta che sono andato ad Auschwitz. Volevo fare un film ma ancora non sapevo su cosa sarebbe stato. Così ho iniziato da un luogo, da uno spazio specifico. Non sapevo ancora nulla della storia o dei personaggi, ho iniziato semplicemente da cosa stavo provando stando lì, i sentimenti che provavo camminando per quei campi. Alla fine, il film racconta un percorso, che è anche il mio viaggio personale.
Ricordo di essere uscito dai campi, un’esperienza ovviamente cupa, ma mi ha ispirato, sapevo che avrei scritto qualcosa che avrebbe coinciliato il presente che stavo vivendo con quel luogo nel passato. Dovevo filmare cos’era successo in quel luogo, ma senza che fosse necessariamente legato al tempo in cui è successo, volevo che il mio film fosse un’esperienza intrecciata con il presente. Suppongo che la fine del film venga da quel primo pensiero: non era un pezzo di storia su cui potevamo chiudere la porta. È qualcosa che si continua a ripetere.
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