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King Kong

King Kong compie 90 anni, un’icona americana

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7 minuti di lettura

L’horror è da sempre stato il genere cinematografico a permettere ai propri autori di sperimentare più liberamente sia con la tecnica che con la narrazione: da Freaks (1932) di Todd Browning, passando poi per Romero ed il suo La Notte dei Morti Viventi (1968), fino alla recentissima produzione cinematografica di Jordan Peele, l’orrore ha sempre voluto cimentarsi con riflessioni complesse, spesso da mascherare con allegorici mostri per universalizzarne il messaggio.

Agli inizi di questa florida produzione artistica si colloca anche l’originale King Kong, diretto da Merian C. Cooper e Ernst B. Schoedsack, che compie oggi, 13 ottobre 2023, novanta anni dalla sua prima data di uscita nelle sale italiane. Il film ha segnato non solo la sua generazione grazie agli spettacolari effetti speciali ed alla competenza tecnica, ma è riuscito a ritagliarsi una fetta di Pop Culture con la quale continua a sopravvivere nella mente di qualsiasi cinefilo: a dimostrarlo, l’ultima recentissima incarnazione del mostruoso gorilla in Kong: Skull Island (2017) e nei successivi spin-off della serie.

King Kong nella cultura popolare

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Questa permanenza nella cultura pop è dovuta anche ad una vera e propria intermedialità per cui il nostro antagonista/simbolo sembra essere nato, spostandosi fra diverse e numerose forme d’intrattenimento: libri, fumetti, adattamenti videoludici diretti o indiretti (inutile negare che Donkey Kong faccia parte dell’impatto culturale della prima grande scimmia del cinema) e successivi remake cinematografici, praticamente uno per decade dagli anni ’70 ad oggi.

Ma l’intrinseca iconicità della creatura, i cui significati più profondi saranno discussi nel paragrafo successivo, gli ha consentito di trascendere il prodotto culturale e trasformarsi in una vera e propria icona, intesa nello stile di Andy Warhol (che indirettamente richiamerà la mitologia della pellicola del 1933 col suo film Empire del 1965, otto ore di ripresa fissa dell’Empire State Building, come ad aspettare la discesa di una nuova creatura su di esso); stampato su magliette e trasformato in giocattoli o accessori, il volto di King Kong rimane inconfondibile e profondamente radicato nel panorama culturale del mondo intero.

Va infatti specificato che Kong è stato anche esportato all’estero ben oltre gli Stati Uniti dove fu creato: emblematici rimarranno i suoi scontri col “collega” nipponico Godzilla, non tanto nel recente Godzilla vs. Kong (2021), quanto nell’originale Il Trionfo di King Kong (1962), diretto da Ishiro Honda, creatore di Godzilla: Kong affronta il kaiju in una battaglia senza esclusione di colpi, vincendo nel montaggio della versione americana e venendo parzialmente sconfitto in quella giapponese. Si può tranquillamente affermare che la lotta spietata fra i due colossi non sia altro che allegoria della battaglia culturale in atto fra l’America, che voleva fagocitare la cultura autoctona, e il Giappone, nel quale autorevoli voci intellettuali continuavano a denunciare il colonialismo culturale americano.

King Kong, mostro americano per eccellenza

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Del resto, se Godzilla era nato per razionalizzare la disperazione e l’orrore che il Giappone aveva subito con la bomba atomica, anche King Kong nacque in un periodo storico molto particolare per gli Stati Uniti: nel 1929 avvenne il Crollo di Wall Street che diede il via alla Grande Depressione, un lungo periodo di crisi finanziaria che mise in ginocchio l’economia globale, ma soprattutto americana. Simbolica diventa così l’immagine della gigantesca scimmia che scala l’Empire State Building, fiorente simbolo dell’economia statunitense, che strappa dal proprio letto l’abitante di un appartamento e che infierisce su un tram metropolitano: una piaga che si abbatte sulla città e che priva i cittadini della sicurezza in cui avevano sempre vissuto.

Per certi versi si potrebbe leggere a posteriori una certa forma di preveggenza nelle immagini create da Schoedsack e Cooper, una sinistra e visionaria previsione degli attacchi terroristici che 70 anni dopo sconvolgeranno ancora una volta l’America l’undici settembre 2001: il potere americano era già negli anni trenta concentrato nei e simboleggiato dai grattacieli di Manhattan.

Se da una parte il film era sintomo dello sgomento di quegli anni, sono anche stati numerosi gli autori a interrogarsi su quali altri segni della società americana dell’epoca si possano ritrovare al suo interno; è ancora aperto il dibattito sulla rappresentazione del diverso in King Kong, da alcuni indicato come proiezione delle paure razziali dell’epoca legato a stereotipi su Africa ed Afro-americani, da altri invece celebrato come una delle prime metafore a condannare lo spietato colonialismo statunitense e la tendenza alla spettacolarizzazione di qualsiasi cosa: l’intero arco narrativo ha infatti inizio con un ambizioso regista Hollywoodiano che decide di andare a girare un film in una sperduta isola abitata da tribù indigene, sfruttandone l’immagine “esotica”.

Certo è però che King Kong stesso abbia a che fare con molti dei desideri repressi e primordiali della società perbenista anni trenta: emblematica la sequenza (censurata per anni e poi reintegrata) nella quale il mostro comincia a spogliare Ann, la protagonista femminile, dopo aver ucciso un avversario in un combattimento. E come in tutti i migliori horror citati sopra, il vero messaggio del film viene esplicitato, in particolare nella celeberrima sequenza finale. La scimmia piange prima di precipitare verso la sua fine: “è stata la bellezza che ha sconfitto la bestia”. Sì, ma non la bellezza della protagonista, la “bellezza” della civiltà e della sua paladina prescelta, gli Stati Uniti d’America.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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