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Credit: Stephanie Cornfield Gabriele Mainetti, fotografato da Stephanie Cornfield
Gabriele Mainetti, fotografato da Stephanie Cornfield

La Città Proibita, il gioco dei generi

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9 minuti di lettura

Se il cinema italiano contemporaneo ha davvero iniziato a riprendersi da vent’anni di sonnolenza, tutti indicano il 2015 come anno dell’inversione di rotta. Tutto merito di Lo Chiamavano Jeeg Robot, che è ormai considerato un moderno cult, di quelli che hanno saputo segnare l’immaginario collettivo nazionale. Il suo regista, Gabriele Mainetti, torna per la terza volta al cinema dopo il piacevole esperimento del 2021 Freaks Out con La Città Proibita.

Credit: Stephanie Cornfield
Gabriele Mainetti, fotografato da Stephanie Cornfield
Credit: Stephanie Cornfield
Gabriele Mainetti, fotografato da Stephanie Cornfield

A sentire gli esperti di settore, il maggiore problema del cinema nostrano negli ultimi decenni è stato il quasi totale ripudio di quella maestrale tradizione italiana del film di genere: siamo stati grandi produttori di b-movies, di horror, polizieschi -o poliziotteschi, come si usa dire- e la venuta meno di questi progetti a basso costo e incasso facile ha profondamente danneggiato i meccanismi con cui Cinecittà ha sempre funzionato, oltre ad averci privato della possibilità di scoprire gli eredi dei grandi maestri del genere: Mario Bava, Fernando di Leo, Michele Soavi, giusto a citarne alcuni.

La Città Proibita è uno di quei rari film che tentano con tutte le loro forze e risorse di resuscitare il cinema di genere italiano; nonostante i suoi indiscutibili problemi, merita già solo per questo un occhio di riguardo.

La Città Proibita e la Città Eterna

La città proibita, una scena d'azione del film di Gabriele Mainetti

Seguiamo le vicende di Mei, combattente cinese in cerca della sorella scomparsa in Italia, e di Marcello, giovane cuoco romano che sta buttando la vita dietro i fornelli del piccolo ristorante di famiglia. I due si incontrano quando scoprono che le rispettive famiglie sono coinvolte in un torbido gioco di potere fra organizzazioni criminali romane e cinesi: al centro di tutto stanno Annibale -magistralmente interpretato da Marco Giallini-, un signorotto che più del boss mafioso ha dello strozzino seriale, e Wang, un businessman dai metodi violenti. Mei e Marcello cercheranno risposte e vendetta, lei a suon di kung fu, lui imparando a cucinare cibo asiatico, prima accettandosi e poi amandosi.

Va innanzitutto sottolineato che il cuore pulsante de La Città Proibita sono le sequenze di combattimento: non solo ben dirette, ma genuinamente creative nell’ideazione ed esecuzione; in ogni film di arti marziali che si rispetti le botte da orbi più intrattenenti sono quelle date con oggetti anonimi e quotidiani: qui abbiamo pesci surgelati, bouquet floreali, stecche da uncinetto, spaghetti, padelle e grattugie trasformati in armi improprie. Le sequenze di combattimento sono girate competentemente, ma soprattutto sono integrate a una regia dinamica e reattiva, che si sposta con l’azione, taglia solo quando necessario e gioca a sorprendere lo spettatore con ciò che mostra e cela degli scontri.

De La Città Proibita vanno evidenziati anche la fotografia e il comparto audio, veramente eccellenti. Ma ciò che colpisce maggiormente è la visione che Gabriele Mainetti restituisce della capitale: proprio come fu per Lo Chiamavano Jeeg Robot, finalmente assistiamo alla rappresentazione di un’Italia veritiera, multi-etnica e moderna. E moderni sono anche i temi al centro de La Città Proibita: il confronto fra culture diverse, la convivenza pacifica, lo sfruttamento nel mondo del lavoro.

Senza scendere in dettagli di trama, il messaggio finale riguarda nello specifico due questioni: il desiderio di integrazione, di tutti indiscriminatamente, anche del malefico Wang, e l’emorragia di gioventù che l’Italia subisce da anni; gli Italiani giovani partono delusi da un paese senza prospettive e quelli che rimangono si rifiutano di accogliere le gioventù straniere che in Italia arrivano cercando un futuro più roseo. La Città Proibita del titolo non fa riferimento solo alla storica dimora dell’Imperatore Ming situata a Pechino, ma anche alle difficoltà incontrate da chiunque voglia stabilirsi a Roma, città proibitagli dagli abitanti che “come i galli contro i romani” si arroccano nel difendere il loro piccolo mondo polveroso.

Se tutte queste sono qualità innegabili dei contenuti del film, ciò che convince meno sono alcune scelte di sceneggiatura: in particolare il taglio romantico dell’intera seconda parte lascia parecchio a desiderare in fatto di credibilità, pur confermando che Mainetti è assolutamente capace di avere punti di riferimento internazionali e illustri. La sfilacciatura di questa storia d’amore, la sua fumosità, vorrebbe inequivocabilmente rimandare alle romanticherie di Wong Kar-Wai, che però sembrano rimanere impossibili da replicare.

In the Mood for Amatriciana e altri riferimenti asiatici

Mei e Marcello, protagonisti di La città proibita di Mainetti, in giro in motorino per le vie di Roma, la Città eterna.

Non è casuale che la colonna sonora di accompagnamento ai titoli di coda inizi con le stesse note dell’iconico tema di Yumeji di In the Mood for Love (2000) -ricordiamolo, rubato dal film di Seijun Suzuki Yumeji (1991)-: il rimando è più che esplicito e profondamente coerente con le scelte di scrittura e regia di Mainetti, che oscillano fra il melodramma di Angeli Perduti (1995) ed il neo-noir di As Tears Go By (1988), entrambi del già citato regista hongkonghese.

Eppure La Città Proibita non si ferma al cinema di Wong Kar-Wai: dal gangster film di John Woo al film di arti marziali sia di Bruce Lee che di Jackie Chan, Mainetti cita continuamente con grande maestria, senza mai rinunciare a una nuova idea da applicare alle immagini prese in prestito. Passando poi al vero e proprio cinema cinese, La Città Proibita risplende di una fotografia e di alcuni elementi di trama che ricordano Lanterne Rosse (1991), il capolavoro di Zhang Yimou, e il suo La Città Proibita (2006), del quale viene preso in prestito direttamente il titolo.

Quello che colpisce profondamente è come Mainetti attivamente eviti il citazionismo del cinema italiano: due scelte in particolare denotano una forte presa di posizione. Il nome del protagonista maschile, Marcello, sembra presuppore un eventuale omaggio diretto a La Dolce Vita (1960) e l’iconica scena della Fontana di Trevi, che invece non arriva mai, anche quando sarebbe stato perfettamente sensato nell’economia della storia; poi c’è il giro in vespa dei due protagonisti fra le strade di Roma, più vicino a Vacanze Romane (1953) che alla celeberrima sequenza di Nanni Moretti in Caro Diario (1993).

Questa doppia esclusione di allusioni che tanto sarebbero apprezzate dal settario pubblico italiano, suona proprio come una dichiarazione d’intenti: ne La Città Proibita, Mainetti vuole tagliare ulteriormente con la tradizione autoriale italiana, molto più di quanto non abbia fatto coi precedenti film, strettamente imparentati, rispettivamente, con Claudio Caligari e Federico Fellini. I suoi modelli sono altrove e il cinema che vuole creare deve avere lo stesso respiro internazionale.

Per concludere, questo è, oltre all’eccellenza tecnica, il maggior punto di forza de La Città Proibita: il modo in cui pesca ovunque e rimescola, contamina, gioca coi generi come solo un film veramente contemporaneo -e quindi postmoderno- saprebbe fare. Si passa da eccitanti scene action a sommessi momenti malinconici attraverso coinvolgenti gag comiche, tutto orchestrato quasi alla perfezione. Peccato per le sbavature di sceneggiatura. Ma del resto Gabriele Mainetti è solo al suo terzo film e ha tutto il tempo di affinare la sua scrittura: intanto è una vera fortuna averlo in Italia.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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