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La Donna di Sabbia

La Donna di Sabbia, 60 anni di dune roventi

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10 minuti di lettura

Si sente spesso dire che, alla fine, è tutta una questione di sesso. Le paure, le fantasie, le relazioni di ogni individuo sono in qualche modo legate alla sfera sessuale della sua persona. Lo stesso potrebbe essere detto anche per numerosi film, il cui tema o la cui lettura sono nel corso degli anni stati smascherati come appunto “questione di sesso.” Da Halloween (1978), complessa metafora del puritanesimo della borghesia americana, al torbido Velluto Blu (1986) di David Lynch, il sesso è stato declinato dal cinema in moltissime salse, mai stantie.

Eppure, forse la più grandiosa scena di intimità mai girata è quella che apre il capolavoro di Alain Resnais, Hiroshima Mon Amour (1960): un’inquadratura fissa, tagliata da un raggio di luce nella penombra, inchioda davanti all’obiettivo due corpi fusi, un groviglio di braccia e schiene il cui ordine si perde nella tenerezza e nella passione con cui si sfiorano. Ogni carezza è sottolineata nella sua fisicità da una sottilissima coltre di polvere che ricopre entrambi i corpi accentuandone la “tessitura,” rendendoli tridimensionali, quasi a invocare la partecipazione dello spettatore e delle sue mani in quella fusione di pelle. Con una dissolvenza, la sabbia si trasforma in finissima polvere dorata, elevando la dimensione corporale del sesso al piano dell’amore più puro.

Quella polvere, quell’insistenza sulla corporalità, saranno il fulcro di tutto La Donna di Sabbia, capolavoro del 1964 di Hiroshi Teshigahara, che questo mese ha compiuto 60 anni. E siccome il cinema giapponese in Italia è sempre arrivato col contagocce – al di fuori dei famosi Ozu, Kurosawa, Kitano – è il caso di riflettere sull’incredibile attualità e creatività dimostrate da questo film.

La Donna di Sabbia e la Nouvelle Vague giapponese

La Donna di Sabbia

Hiroshi Teshigahara si distingue immediatamente come uno dei nomi più prominenti della New Wave giapponese degli anni ’60: dopo essersi fatto notare negli anni ’50 con una serie di documentari sperimentali, Teshigahara comincia a collaborare con l’amico Abe Kobo, uno dei più prolifici ed innovativi drammaturghi del Giappone post-bellico; dalla scrittura di Kobo, tinta di atmosfere Kafkiane e surreali, nascono ben quattro collaborazioni, Otoshihana (1962), La Donna di Sabbia (1964), The Face of Another (1965) e The Ruined Map (1968).

Di questi, La Donna di Sabbia e The Face of Another varranno al regista prima una vittoria a Cannes e poi una nomination agli Oscar: come molti dei suoi colleghi dell’epoca – Toshio Matsumoto, Shuji Terayama, Masahiro Shinoda – Teshigahara si confronta con la società moderna e i suoi vincoli, con i riti culturali ai quali l’uomo comune sceglie di sottoporsi o sottrarsi e con la sessualità repressa di un’intera nazione. Con lo stile frammentario della Nuovelle Vague francese e una ricca mitologia di immagini e simboli vicini alla cultura classica giapponese, questi artisti hanno gettato le basi per un modo di fare cinema che sopravvive tutt’oggi in progetti indipendenti o di alto profilo come gli horror autoriali di casa A24.

La Donna di Sabbia in particolare è uno degli episodi più significativi di quegli anni: la collaborazione fra Teshigahara e Kobo partorisce un incubo degno dell’adattamento del miglior Kafka; un entomologo scappa dalla città per andare a caccia di insetti in una remota regione desertica del Giappone. Una volta arrivato lì, viene ingannato da una donna del luogo e finisce intrappolato con lei in una enorme buca di sabbia, costantemente e lentamente erosa dal tempo.

L’esistenza dell’uomo e della sua nuova consorte va quindi a consumarsi nello spalare sabbia fuori dalla buca per evitare di rimanere soffocati, solo per poi ricominciare il giorno dopo, in un infinito ciclo che vede una strana tribù di uomini “superiori” – fuori dalla buca – torturare e ridere dei loro prigionieri.

L’uomo tenta di fuggire, eppure le “maschere” che presiedono il pozzo nel quale è rinchiuso non consentono che nessuno cerchi di ribellarsi allo status quo: il protagonista finisce con l’arrendersi al suo destino, tramutato in una macchina che invece di vivere, sopravvive con lo stretto necessario.

Soffocare in una clessidra

La Donna di Sabbia

Se il messaggio implicito non fosse chiaro, il protagonista si aliena al mondo circostante tanto quanto il resto dei giapponesi e la loro vita fatta di lavoro e bisogni fisiologici. Per Kobo e Teshigahara non c’è differenza fra lo spalare sabbia e il lavorare otto ore in un ufficio o in una fabbrica, alla fine ogni individuo si accontenterà suo malgrado di una pagnotta, un bicchiere d’acqua ed un po’ di tempo speso nel letto con il partner.

La metafora della sabbia, non evoca solo l’immagine della clessidra – e quindi dello scorrere del tempo – ma anche quella di una battaglia impari e inutile contro un modello di vita semplicemente sbagliato. Non è un caso che La Donna di Sabbia si apra e chiuda con una serie di suoni e immagini che rimandano ai cosiddetti johatsu, gli “evaporati” giapponesi che ogni anno, da decenni, scompaiono nel nulla abbandonando famiglia e lavoro, spesso per sfuggire ai ritmi forsennati della modernità. Il cinismo estremo degli autori immagina che pur sottraendosi alla frenetica routine cittadina il protagonista sia condannato a una vita vuota e alienante a livello esistenziale.

Traspare inoltre un chiaro intento politico-ideologico: sia Kobo che Teshigahara erano Marxisti e il fatto che gli aguzzini del protagonista siano “coloro che vivono più in alto,” mostri senza volto che affidano compiti senza senso ai loro sottoposti solo per continuare a controllarli, non passa certamente inosservato. Proprio questi uomini, in una delle sequenze più conturbanti del film, obbligano i prigionieri a consumare il proprio amore davanti all’intero villaggio: “che importa, tanto viviamo come animali!” urla il protagonista tentando di trascinare la compagna davanti ai loro carcerieri. Non è la prima scena di natura sessuale del film, anzi: fin dal suo arrivo nella buca, l’uomo è corteggiato e tentato dall’altra prigioniera, in un complesso gioco di seduzione e carnalità.

I corpi de La Donna di Sabbia sono fisici, tangibili tanto quanto quelli di Hiroshima Mon Amour, ricoperti a loro volta di polvere, eppure fin dalla prima scena di sesso, il contrasto è netto. Se Resnais inquadrava l’atto in un’unica ripresa, Teshigahara spezza il tempo e seziona i corpi col montaggio, impedisce ai granelli cutanei di sublimarsi d’oro come quelli del regista francese. Il sesso rimane meccanico e animalesco, spogliato anche della sua naturale intimità per il piacere dei carnefici mascherati che governano questo ordine deumanizzante chiamato società.

Non c’è salvezza fra le dune roventi delle curve maschili e femminili, solo oppio carnale per sopportare una nuova alba a spalare sabbia dentro a un’enorme clessidra sempre più incrinata, sempre più pronta ad andare in frantumi.

La terribile domanda che nessuno vuole porsi è: “cosa succederà dopo che la clessidra si sarà rotta?” La altrettanto terribile risposta di Kobo e Teshigahara arriva nel finale del film: l’assuefazione indotta nell’individuo dal sistema che lo governa è così forte da fare presa su di lui anche quando gli viene presentata la possibilità di sottrarvisi. Quando la clessidra si sarà rotta, rimarranno l’uomo, la sabbia e la pala con cui egli ha sempre lavorato: è solo “naturale” che egli senta il bisogno di continuare a spalare, del resto è stato programmato per quello.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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