Tutta l’Italia unificata, dal pubblico alla critica, rimase stupita dal potenziale di La Stranezza (2022) di Roberto Andò: coniugare ricercatezza stilistica con una scrittura “popolare” non è comune nel cinema italiano contemporaneo; ancora più raro è incontrare un film che incarni alla perfezione le due linee editoriali per eccellenza: quella educativa della Rai e quella comica di Mediaset, per la prima volta entrambe coinvolte nella produzione.
Squadra che vince non si cambia, e quindi per L’Abbaglio, nelle sale dal 16 gennaio 2025, Rai, Mediaset, Andò e i tre protagonisti de La Stranezza, Toni Servillo e i comici Ficarra e Picone sono tornati all’attacco, questa volta coinvolgendo anche il più redditizio dei partner cinematografici, Netflix. Eppure il risultato è alquanto più deludente del precedente: per parlare di successo finanziario bisognerà aspettare il verdetto del botteghino -e della successiva distribuzione in streaming- ma intanto si possono tirare le somme degli sforzi artistici del regista e dei suoi attori.
L’Abbaglio di Andò alla regia

1860. Garibaldi (Tommaso Ragno) si prepara a partire per Marsala da Quarto, con l’obiettivo di raggiungere Palermo e poi Napoli, unificando il Regno d’Italia. Assieme a lui partono i famosi Mille e insieme a loro partiamo noi spettatori: seguiamo due proverbiali poveracci-Ficarra e Picone-, entrambi siciliani, ma lontani da anni dalla loro terra, e il loro generale Vincenzo Giordano Orsini, qui interpretato da Servillo. Le loro storie si intrecciano nel corso di vent’anni, prima di lotte per ideali di libertà e poi di speranze disattese.
Prima osservazione da muovere nei confronti de L’Abbaglio è come questi due archi narrativi per buona parte del film si sfiorino appena: i due siciliani hanno poco a che fare con il loro generale, se non nella parte iniziale e in quella finale. Proprio questo restituisce a chi guarda la sensazione di un film decisamente meno amalgamato rispetto a La Stranezza, nel quale la comicità del duo e la drammaticità di Servillo si incontravano molto più sapientemente.
Qui è proprio il taglio narrativo ad essere diverso, visto che Ficarra e Picone hanno ruoli per lo più drammatici -per altro dimostrando davvero le loro capacità attoriali- e visto che il film stesso sceglie di prendersi molto più sul serio, sia stilisticamente che contenutisticamente.
Cosa non funziona?
Se La Stranezza riusciva a oscillare fra il farsesco e il Bellocchiano, L’Abbaglio è piuttosto completamente in linea con il catalogo Netflix, sia per fotografia e musiche, che per regia; basta confrontare alcuni fotogrammi dell’imminente adattamento netflixiano de Il Gattopardo (2025) con quelli de L’Abbaglio per cogliere un filo rosso produttivo. Manca coesione fra diverse scelte stilistiche che si alternano fra il raffinato e il veramente scadente con eccessiva disinvoltura: è surreale pensare che le scene di battaglia, confuse e sfocate, e la morte di un personaggio secondario, rappresentata con un orribile slow-motion, precedano un finale invece molto ricercato anche nell’aspetto visivo e di montaggio. Vi è insomma una profonda scostanza nella regia de L’Abbaglio.
Questo il tallone d’Achille di Roberto Andò: anche per La Stranezza, il capolavoro fu più produttivo che strettamente registico, considerazione valida per quasi tutti gli altri lavori del regista: Viva la Libertà (2013) parlava della crisi d’identità della sinistra italiana e dell’incombente populismo renziano tramite la commedia, richiamando Il Caimano (2006) senza però poterne ricatturare le sottigliezze; Le Confessioni (2016) voleva essere un thriller politico alla Todo Modo (1976), e invece si rivelò un serioso dramma alquanto superficiale; Il Bambino Nascosto (2021) ricorda le sceneggiature di Gianni Amelio e Carlo Mazzacurati senza carpirne la forza; le stesse atmosfere de La Stranezza nelle mani di Marco Bellocchio -che si è peraltro già confrontato con Pirandello in Enrico IV (1984) e ne La Balia (1999)- sarebbero state più cupe, più torbide, meglio delineate.
Pare che il problema ricorrente dei film di Roberto Andò sia proprio il modo in cui lui posiziona la camera, seleziona le suggestioni, inquadra i suoi attori. Eppure i problemi de L’Abbaglio questa volta riguardano anche la sceneggiatura stessa.
“Si dice di più con le parole non dette”
Questa è la frase che afferma svariate volte Toni Servillo, rivolgendosi al suo sottoufficiale Leonardo Maltese, parlandogli del popolo siciliano, che comunica, appunto, con cenni e sguardi. Eppure la stessa affermazione andava forse ripetuta anche ad Andò, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, sceneggiatori in collaborazione già da La Stranezza: il problema principale de L’Abbaglio sta proprio nel non riuscire a resistere alla tentazione di “imboccare” i propri spettatori con continui discorsi circa i molti temi centrali del film.
La Questione Meridionale, la natura del popolo siciliano, le considerazioni storiche e morali sul lascito di Garibaldi, la pervasività della mafia, gli ideali traditi di tutte le rivoluzioni, volteggiano nell’aria e vengono costantemente riesumati da tutti i personaggi senza che ne vengano mai veramente tirate le somme. Guarda caso, le considerazioni più sottili del film arrivano proprio negli ultimi 15 minuti, quando i dialoghi sono ridotti al minimo indispensabile e le immagini possono comunicare al meglio.
Se l’immediato retrogusto che resta in bocca dopo la visione de L’Abbaglio è abbastanza buono, un ottimo dessert non può cancellare una serie di pessime portate: tutto rimane in superficie, abbozzato, senza che gli obiettivi dei personaggi -di fondamentale importanza visto che una delle tesi cardine del film è proprio che ogni rivoluzione è combattuta in primo luogo per motivi personali- siano mai veramente approfonditi.
Raccontare il Risorgimento italiano
Certo, va detto, non deve essere facile misurarsi in modo fresco con il periodo del Risorgimento, già sviscerato da tanti autori: senza stare a scomodare il Visconti di Senso (1954) e de Il Gattopardo (1963), che ha fondamentalmente detto tutto quello che c’era da dire su quel periodo, anche i fratelli Taviani dedicarono due immensi film all’abbaglio dell’unità d’Italia, San Michele aveva un gallo (1972) e Allonsanfàn (1974); e ancora, nel 1961 Roberto Rossellini affrontò l’avanzata garibaldina con uno dei suoi migliori film didattici, Viva L’Italia, mentre nel 1972 Florestano Vancini utilizzò la storia per politicizzare l’attualità col suo Bronte: Cronaca di un massacro.
Purtroppo, con tutta questa tradizione cinematografica dalla quale attingere, L’Abbaglio si avvicina maggiormente alla muffa di Noi credevamo (2010), firmato Mario Martone: un kolossal nato vecchio dalle venature Rai-fiction, con fotografia slavata, recitazione sopra le righe e regia orrendamente televisiva. L’Abbaglio almeno in questo è decisamente più moderno del lavoro di Martone: la sua regia è dozzinale ma entro tempo massimo, ne condivide piuttosto la bulimia tematica.
Eppure, se Ficarra e Picone ne La Stranezza erano tragicomici quanto Ciccio e Franco lo erano in Kaos (1984), qui ci si sarebbe potuti augurare di vedere un film che si prendesse meno sul serio senza sfociare nel ridicolo: che trovasse insomma un equilibrio fra Noi credevamo e I Figli del Leopardo (1965).
Noi credevamo nella piccola rivoluzione de La Stranezza, in quella formula che ha consentito al pubblico di inondare le sale e alla critica di non mangiarsi le mani. L’Abbaglio è un passo indietro, ma non catastrofico come molti sospettavano, qualcosa di buono rimane nelle interpretazioni dei suoi protagonisti, nella resa di alcune sequenze. Noi credevamo. E il consiglio è di continuare a credere in un cinema italiano che soddisfi proprio tutti, botteghino e addetti ai lavori compresi
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