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Venezia 81 – Phantosmia, una riflessione sull’etica dell’omicidio giusto

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7 minuti di lettura

In una Venezia 81 gremita, la sala è semivuota durante la proiezione del mattino di Phantosmia, diretto dal regista filippino Lav Diaz e presentato all’interno della sezione Fuori Concorso del festival. L’orario intimorisce, ma anche il minutaggio non aiuta. Un lungometraggio da 246 minuti, che spazio può prendersi nell’era del consumo bulimico, dell’informazione istantanea? E che tipo di futuro può avere nella distribuzione in sala, dato che occupa lo slot di due film insieme?

Solo ai festival trova ancora un porto (quasi) sicuro. In quei 246 minuti, Lav Diaz fa il suo incantesimo: ci consegna l’umanità dei suoi personaggi, che dipinge un’inquadratura in campo medio alla volta, e ha tempo di raccontare storie distinte che infine risuonano all’unisono.

Che cos’è Phantosmia?

Ronnie Lazaro in una scena di Phantosmia

Phantosmia è prima di tutto un’indagine sull’origine e la legittimità della violenza, più precisamente una riflessione sull’etica dell’uccidere. L’ingranaggio filmico ci mette un’ora buona per entrare in moto. Quando lo fa siamo già dentro l’animo del personaggio principale, il sergente Hilarion Zabala (Ronnie Lazaro), un ranger ormai anziano che è appena rimasto vedovo. Di lui intuiamo a poco a poco le ombre e i rimpianti che lo braccano dal passato e si manifestano tramite la sua particolare condizione. L’uomo è affetto da fantosmia, appunto, ovvero ha delle allucinazioni olfattive, riconducibili a un mai del tutto curato PTSD.

C’è puzza, una puzza tremenda

Phantosmia di Lav Diaz

In Phantosmia, gli scenari sono i classici di Lav Diaz, e anche lo stile è inconfondibile. Il bianco e nero pulito e la scelta frequente della camera fissa costruiscono le geometrie di cittadine e giungle, inumidite dalle gocce di una pioggia perenne.

Con l’ex ranger Hilarion Zabala, protagonista di Phantosmia, Lav Diaz torna sui temi a lui cari: le repressioni, le disparità sociali e le ingiustizie inserite nel contesto filippino. L’identità nazionale e la memoria storica delle Filippine emergono qua e là dai racconti di Zabala durante il suo processo di guarigione e si intrecciano col vissuto personale. Su un taccuino annota le sofferenze dell’infanzia – il padre che lo butta giù dal letto per imbracciare un’arma e centrare il bersaglio -, il duro addestramento da ranger, gli omicidi perpetrati sul campo di battaglia pensando di essere a servizio della patria da difendere dai comunisti.

Una vita segnata dalla violenza, che ha abbracciato come giustizia. La puzza che Zabala sente, esiste; soltanto non sul piano fisico: è il tanfo del senso di colpa, del rimpianto (potrà scomparire compiendo un’opera di bene?).

Phantosmia, il mito di Haring Musang e Reyna

Ronnie Lazaro in una scena di Phantosmia

Quando, dopo un’abbondante parte introduttiva, ci addentriamo con Hilarion Zabala nella vegetazione dell’isola filippina di Pulo, siamo pronti ad accogliere finalmente anche quel misticismo caro al regista, che qui verrà compreso appieno soltanto nel finale di Phantosmia. La simbologia chiave sta tutta nel decantato mito di Haring Musang, uno spirito della foresta che si manifesta sotto forma di gatto selvatico e che nessuno è mai riuscito a catturare.

È con l’assunzione di Zabala nel ruolo di guardiano della Colonia Penale di Pulo che la storia del protagonista si intreccia con quella di Reyna, raccontata fino a quel momento in parallelo. Reyna è una giovane donna dell’isola che vive una condizione di sfruttamento dalla quale non può scappare.

Qui va detto che Diaz pecca di mancata introspezione del personaggio femminile, in favore di un maggiore approfondimento del protagonista, perché di Reyna non sappiamo molto, se non che la madre adottiva la costringe alla prostituzione per fare soldi. L’attrice Janine Gutierrez tuttavia restituisce magistralmente il dolore del personaggio, senza bisogno di proferire quasi neanche una battuta (la ragazza non riesce a parlare), lasciando tutta la comunicazione al corpo – convulso tra continui attacchi di panico, tremori, crisi di pianto.

Il finale di Phantosmia

Ronnie Lazaro in una scena di Phantosmia

Sul finale di Phantosmia, il vecchio Zabala – che nel frattempo nella mente dello spettatore si è trasformato in una sorta di Clint Eastwood, risoluto e letale perché così percepito da chiunque lo incontri – termina il proprio cammino di redenzione passando attraverso la liberazione di Reyna. La simbologia arriva al suo picco nelle scene conclusive, quando Reyna, nascosta nella foresta in cerca di rifugio e prossima alla libertà, viene braccata dal soldato che l’ha stuprata ripetutamente per tutto il film, un uomo avvelenato dall’ego e profondamente violento, che Diaz carica di simbolismo fallico (ama le armi, mostra il fucile per affermare la sua autorità).

La ragazza viene trattata da lui alla stregua del misterioso Haring Musang: una preda da catturare (non è forse l’immagine più eloquente per parlare dell’oggettificazione femminile?). Ma chiunque abbia cercato di uccidere Haring Musang è morto, così anche il soldato dovrà morire. E Zabala, seppur abbia maturato una nuova comprensione dei crimini del passato, infrangerà il suo voto di non uccidere mai più per far sì che ciò avvenga e Reyna sopravviva libera. Così Diaz lascia aperta la porta alla riflessione del pubblico sulla giustizia e sull’uccidere, mettendo in dubbio lui stesso ciò che aveva affermato poco prima tramite Zabala: nessuno ha il permesso di uccidere, uccidere non è mai un dovere.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

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