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Rifkin's Festival

Rifkin’s Festival, Woody Allen è ancora qui

Il nuovo film di Woody Allen è la sintesi perfetta del suo mondo

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12 minuti di lettura

Il cinema è morto e nemmeno Allen si sente tanto bene. Ma Woody è ancora qui, e Rifkin’s Festival – dal 6 maggio nelle sale italiane – racconta una resistenza. A monte, è lo sforzo di un regista rigettato dal sistema. Poi, è il tentativo di un artista di essere nulla più di se stesso. Allen è sempre Allen, e così il suo cinema. Di cambiare, prima di aver risolto la paura della morte e il sospetto sulla vita, non ha interesse.

Per questo Rifkin’s Festival risuona testamentario. Perché ripete il suo autore. Con un manipolo di attori – gli ultimi a non averlo venduto per una statuetta – e una cittadina spagnola a sua disposizione, Rifkin’s Festival ricuce il cinema di Allen in un vestito nuziale. È un compendio, la celebrazione delle nozze d’argento tra Allen e il cinema. Ma il cinquantesimo film potrebbe essere l’ultimo, dicono. Forse per questo appare malinconico. Una galleria di idiosincrasie che si riversa in un cinema per nessuno, che pochi colgono – in un rimestare citazionistico della sconosciutissima storia del cinema classico -, e che in ancor meno apprezzano.

Eppure, per chi in sala ci vuole entrare, è ancora un’esperienza da non perdere. Di certo più significativa di Un giorno di pioggia a New York, sbiadito saluto a una città a cui il suo cinema non tornerà più. Anche di questo parla Rifkin’s Festival. Di un esilio in un’isola d’Elba dell’arte. Una condizione dolorosa, che induce infatti il suo protagonista, parodistico alter ego di Allen, a soffrire di cuore da quando ha lasciato la città.

Rifkin’s Festival è tutto Allen e qualcosa di meno

Rifkin's Festival

Wallace Shawn interpreta Mort Rifkin, ex insegnante di Storia del cinema. Si chiama come uno dei comici preferiti di Allen, Mort Sahl, ma si muove come il regista. Le mani sui fianchi, leggermente girate verso la schiena, e il passo lento di chi incede certo dell’insensatezza del mondo. Del tutto incapace di scrivere il romanzo di una vita, Mort ripiega sui ricordi di un cinema perduto nel tempo. Si trova a San Sebastián con la moglie, manager di un regista (Louis Garrel) in concorso al Festival della città.

Fuggito da New York, dove il suo precedente film non è nemmeno stato proiettato, Woody Allen ritrova l’ospitalità europea. Siamo lontani dalla Barcelona di Scarlett Johansson e Penélope Cruz; scopriamo San Sebastián. La cittadina balneare è l’occasione per giocare coi colori, sempre più accesi e irreali. L’inevitabile pubblicità che il film concede al festival della città si trasforma però in uno spot stucchevole. Ferita dalle necessità di marketing, la sceneggiatura di Allen, sempre attenta e sottile, si protende all’estremo per favorire la bellezza del luogo.

Il matrimonio al tramonto accende in Mort il dubbio: e se la moglie lo tradisse con il tronfio artistoide? Il tempo di rifletterci che il cielo spagnolo gli manda Jo, giovane Dottoressa innamorata di New York. Lui, ovviamente, speranze non ne ha. Ma la vita, per Allen, è donna; e non si aspetta di sopravviverle.

Rifkin's Festival

In Rifkin’s Festival, con esasperata ridondanza, il cinema è donna quanto la meschinità è uomo. Ogni musa di Mort, quella perduta in un matrimonio consumato, o quella ritrovata sotto un sole dai mille arancioni, è una dea compiuta.

Dopo un inizio scoppiettante, dove Allen concentra le migliori battute – alcune riciclate ma ancora esilaranti, altre nuove ma meno efficaci – Rifkin’s Festival si spezza. Come Un giorno di pioggia a New York ma con meno ritmo. D’altronde, Mort non è il giovane Chalamet. Non c’è l’energia per rincorrere la città. E infatti San Sebastián non ha i tempi della grande Mela. È un luogo di mediterranea ammirazione. Da un lato, dunque, la moglie infiammata da una ritrovata passione, e dall’altra lui, impegnato a inventare le più strane malattie per vedere la Dottoressa Jo.

Nella mente di Mort, nei ricordi di Allen

Rifkin's Festival

Una terza via segue però l’inconscio di Mort. Ogni notte sogna i film amati in gioventù, mescolando inquadrature e ricordi, come un Fellini senza poesia. Incapace di originalità, e difatti destinato a non scrivere mai il grande romanzo d’autore, rivive il passato rubando celluloide. Bergman, Welles, Truffaut; nei sogni di Mort la vita si nutre del cinema vissuto.

“Il mio rimpianto più grande? Che ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”

A proposito di niente, autobiografia di Woody Allen

Rifkin’s Festival è il racconto di Mort allo psicoanalista. Allen è ancora lì, seduto su un lettino a parlare di sé. Sul comodino accanto al protagonista una piccola statua di legno: un uomo ripiega la schiena e si richiude in se stesso. È questo il cinema di Allen, oggi. Un ritorno coerente a domande mai risolte. Come Allen, Mort ignora il presente. Perché nessuno, dalla politica all’arte, tratta “i grandi temi”. Ora “il cinema non è quello che insegnavo”, lamenta Mort. Tanto ascetico quanto semplice, la verità di un uomo che per compleanno vorrebbe uno spazzolino elettrico.

“Nelle questioni più profonde non ho fatto un solo passo avanti; le paure, i conflitti e le debolezze che avevo tra i diciassette e i vent’anni li ho ancora adesso”, racconta Allen nella sua autobiografia. E Rifkin’s Festival ne è solo l’ultima conferma. Perché nulla, o poco, aggiunge a una filmografia sterminata ma a suo modo breve, trascrivibile in una manciata di domande sulla vita, la morte e la realtà.

Rivedere Allen, ritrovare il cinema

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“Quando mi chiedono quale personaggio dei miei film mi assomiglia di più, dico sempre di dare un’occhiata a Cecilia nella Rosa purpurea del Cairo.”

l colori di Storaro, saturati sino all’eccesso (in Wonder Wheel facevano brillare persino la pioggia), lasciano spazio al bianco e nero. D’improvviso siamo in 8 e1/2, e Nino Rota risuona in sala splendido come sempre. La mente di Mort è il grande cinema europeo. Il suo inconscio coincide con Allen. Un po’ Harry a Pezzi, un po’ La Rosa Purpurea del Cairo, e a suo modo l’intera filmografia di Allen, Rifkin’s Festival è una dedica a un cinema scomparso. In sala, oggi, sono in pochi a cogliere. Ma Allen parla a se stesso, e se il cinema di oggi non lo conosce, in quello di ieri ci si perde. Chi vuole, può seguirlo. Agli altri resta comunque un buon film, di quelli che Allen sa fare con maniera e perizia, da ultimo maestro della commedia leggera.

Mort è una nuova Cecilia. Ma non entra in sala. Vive di ricordi. Non si proietta in avanti e introietta se stesso. Siamo fatti dei film che abbiamo visto, dice. Il problema è uscirne. Incastrato, l’Allen-Mort si rivede come dentro a un’opera di Bergman. L’idea permette al regista di costruire un’impalcatura immaginifica che sappia rispondere a un suo grande rammarico. “Sogno di fare Il settimo sigillo e Il posto delle fragole. – aveva dichiarato nella sua autobiografia – Invece mi arrabatto con Il dormiglione, Amore e guerra, Io e Annie. Divertenti, forse, ma io volevo fare altro”.

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E così Bergman lo ricostruisce qui, rispettoso di ogni singola inquadratura ma pronto alla farsa. Ridiamo di Mort sotto la neve di Citizen Kane, o sulla bici con Jules e Jim. La selezione è attenta, perché a Mort piace un cinema dentro al cinema, cinefilo tra i cinefili, per gli Americani. A Mort non piace Susanna, A Qualcuno piace caldo, La vita è meravigliosa. Lui guarda all’Europa, ma di 40 anni fa. Come Allen, che ricorda Il Settimo Sigillo come non fosse un film del ’57. Nemico della realtà, ma realista sino alla nevrosi, Allen celebra una solitudine. A tutti loro, i maestri dei “grandi temi”, lui è sopravvissuto, senza nemmeno raggiungerli sull’olimpo. Secondo lui, ovviamente.

“Se ne sono andati tutti. Truffaut, Resnais, Antonioni, De Sica, Kazan. Il mondo è cambiato, e tutti quelli su cui volevo fare colpo quando ero giovane sono svaniti nel nulla che pare aspetti tutti noi.”

A proposito di niente, autobiografia di Woody Allen

Quanto è bello il piccolo cinema sul grande schermo

Rifkin's Festival

Negli ultimi anni, in difesa della sala, abbiamo sbandierato il grande cinema della meraviglia. I cieli, gli spazi, le velleità del grande schermo. Senza saperlo, abbiamo diviso il campo: da una parte il cinema piccolo – che è spesso commedia – va bene in soggiorno, dall’altra il cinema grande, che non è grande cinema ma non può rinunciare alla sala. Ma Woody Allen, visto in Sala (dove è nato e deve restare), è la conferma di un errore. Perché Rifkin’s Festival è un film dalle buone intenzioni, dalle calme ambizioni. Eppure conquista la sala, dove le risate, i commenti, gli scherni, amplificano la visione. Riempie lo schermo, fa ridere il pubblico. Dopo un anno di chiusura, Rifkin’s Festival, più dell’imminente e colossale Kong vs Godzilla, ricorda che il cinema è anche questo: film semplici che diventano grandi. L’addio di Allen, se di addio si tratterrà, è il bentornato più sincero che potessimo trovare.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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