Dopo esser stato presentato in anteprima alla 75esima edizione del Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard e al Torino Horror Festival, arriva nelle sale italiane Sick of Myself, nuova opera del regista norvegese Kristoffer Borgli.
Scritto e montato dallo stesso Borgli, Sick of Myself è un film che affonda le proprie radici nel dramma psicologico, tra atmosfere inquietanti e un sapiente uso del body horror.
Sick of Myself, l’arte del vittimismo
Signe (Kristine Kujath Thorp) è una ragazza norvegese che conduce una vita ordinaria, tra il lavoro quotidiano in un bar e la convivenza assieme al proprio compagno Thomas (Eirik Sæther), artista concettuale che basa il proprio lavoro sul furto di mobili e oggetti di decoro. Nel vivere la loro relazione, Signe si trova spesso eclissata dalla forte personalità del ragazzo che, spinto da una forte vena egocentrica e narcisistica, la sminuisce e la ignora costantemente.
Un giorno, durante il proprio turno di lavoro, la ragazza assiste a un feroce attacco da parte di un cane nei confronti di una donna che, ferita alla gola, arranca all’interno del locale per chiedere aiuto.
Signe la soccorre, macchiando i propri vestiti di sangue e attirando così su di sé gli sguardi delle persone all’interno del bar.
Il singolare evento avrà una riprecussione sulla vita della ragazza anche nei giorni seguenti quando scoprirà che le sue conoscenze, solitamente intente a ignorarla, nutrono per lei una nuova curiosità.
Questa inaspettata considerazione innescherà all’interno di Signe una reazione a catena che la porterà a una costante e crescente ricerca di attenzioni tramite l’uso del vittimismo. Un meccanismo malato che si concretizzerà in una scelta folle: l’abuso di un farmaco sperimentale di origine sovietiche che, se ingerito in grandi quantità, causa una grave malattia della pelle.
Sick of Myself, “sono i narcisisti quelli che ce la fanno”
Tramite l’eccesso e il disturbante, Sick of Myself è un film che aspira a essere un racconto sul disagio mentale dell’essere umano moderno inserito in una società che stimola il costante desiderio di essere necessariamente al centro dell’attenzione per colmare il proprio vuoto esistenziale.
Sia Signe che Thomas sono infatti sempre alla continua ricerca di riflettori, sfidandosi a vicenda in un reciproco gioco delle parti. Ma se da un lato il ragazzo cerca di raggiungere il proprio obiettivo tramite la propria arte, spesso vacua e priva di un reale significato, dall’altro Signe decide invece di sfruttare la propria fisicità e il suo stesso corpo come strumento per focalizzare su se stessa la considerazione tanto bramata.
Una volta sperimentato il ruolo della vittima, la ragazza si rende conto di quanto sia necessario spettacolarizzare il dolore e la sofferenza in modo da ottenere un continuo interesse , fatto di curiosità e falsa solidarietà. Come una sorta di strana pittrice, Signe decide di usare il proprio corpo e, in particolare il proprio volto, come tela su cui imprimere lo strazio e l’orrore utile affinché le persone che ha intorno ne siano attirate e, sotto una certa ottica, affascinate.
La metamorfosi data dalla malattia, che le deforma i lineamenti e le marchia la pelle, diventa così l’unica via possibile per ricevere le premure desiderate, una continua ossessione che sfocia nell’idealizzazione della sofferenza (basti pensare ai momenti onirici come in quello in cui la protagonista immagina il proprio funerale come un evento di alta società su invito) e nel narcisismo più puro.
Un narcisismo che, inoltre, va a scontrarsi con quello del proprio compagno che, anziché nutrire una reale preoccupazione nei confronti della salute della ragazza, instaura un rapporto di sfida continua per cercare di difendere la sua fragile personalità, messa ora in pericolo dalle nuove attenzioni degli altri nei confronti della protagonista.
“Sono i narcisisti quelli che ce la fanno, alla fine” afferma Signe all’inizio della pellicola, ed è forse questo il vero messaggio che il regista ci vuole comunicare: il disagio psicotico della ragazza non è un fatto esclusivamente personale ma il riflesso di un disturbo su larga scala di cui ognuno di noi è in realtà vittima.
Sick of Myself, “il mio corpo che cambia”
Sul lato tecnico, Sick of Myself si presenta come un film discreto. La recitazione dei vari protagonisti è piuttosto convincente, specialmente quella della Thorp, capace di impersonificare molto bene lo spirito nevrotico e ossessivo del suo personaggio.
La fotografia, fredda e realistica , sembra voler restituire allo spettatore un ambientazione asettica, priva di emotività.
Non sono presenti particolari movimenti di macchina o intuizioni registiche memorabili ma la narrazione riesce comunque a mantenere, grazie alla tensione crescente della sceneggiatura, un ritmo che non permette allo spettatore di distrarsi.
Complice di questo è anche (e soprattutto) l’ottimo lavoro del truccatore Izzi Galindo che riesce a trasformare, in un climax costante, il bel volto della protagonista in un ammasso di carne rivoltante, rappresentando al meglio lo svilupparsi sempre più violento del disagio interiore ed esteriore di Signe.
Una metamorfosi corporea che sembra attingere da opere storiche del genere body horror, primo su tutti La Mosca, di David Cronenberg.
La malattia è dentro di noi
In definitiva, si può affermare che Sick of myself sia un film decisamente interessante che riesce a smuovere lo spirito dello spettatore grazie alla sua visceralità e alla sua capacità di dare una forma, orrenda e ben definita, a un disagio che affligge la maggior parte di noi, a quel senso di angoscia che ci spinge di continuo a far di tutto e a consumare noi stessi, pur di ottenere il nostro tanto desiderato quarto d’ora di celebrità.
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