Le sale cinematografiche si incendiano per l’arrivo sul grande schermo di un horror firmato dalla celebre rock band dei Foo Fighters. Si intitola Studio 666 la pellicola che verrà distribuita in Italia, da Nexo Digital, dal 23 al 29 giugno, e che porta la firma dei membri della band come produttori esecutivi e i loro volti come attori protagonisti. La storia è poi frutto della penna del frontman Dave Grohl che, poco dopo lo scioglimento dei Nirvana con la morte di Kurt Cobain, nel 1994, ha dato vita a una delle band più prolifiche e talentuose del panorama rock contemporaneo.
Con la scanzonata autoironia che li contraddistingue, i Foo Fighters si mettono in gioco con un genere che si sposa ai roboanti riff della musica del diavolo. Così le corde delle chitarre vibrano sotto il tocco di Dave Grohl, Pat Smear e Chris Shiflett, il basso si accompagna alla mano di Nate Mendel, la batteria tuona tra i tamburi di Taylor Hawkins e le tastiere di Raimi Jaffee chiudono un sodalizio artistico che dura da più di vent’anni. Nonostante la comicità pervasiva, Studio 666 arriva in sala a pochi mesi dalla controversa morte di Hawkins, trovato senza vita, a soli 50 anni, in una stanza d’albergo a Bogotà.
Un’ombra che va oltre le fittizie presenze demoniache aleggia quindi su un film che ricorda la band nella fase preparatoria al suo ultimo album, MEDICINE AT MIDNIGHT (2021). È impossibile non affezionarsi ai Foo Fighters nella rocambolesca giostra che li accompagna nella rievocazione drammaturgica della registrazione dell’album. Con un tacito addio a Hawkins, Studio 666 invita lo spettatore a non prendersi sul serio, tra rock e demoni di una casa infestata.
Studio 666: The Best Of…Foo Fighters
Il noto comico Jeff Garlin apre le danze nei panni di Grant Shill, manager a cui i Foo Fighters, in crisi d’ispirazione, devono consegnare il loro nuovo album. Dati i tempi serrati, Shill propone al gruppo una grande villa isolata per ritrovare la vena creativa e registrare. È Barb (Leslie Grossman, già protagonista di alcuni dei prodotti seriali horror di Brad Falchuk e Ryan Murphy) a offrire loro quella che appare sin da subito come una casa maledetta. Proprio lì, negli anni Novanta, una rock band chiamata Dream Widow è stata trovata assassinata: sembra infatti che il frontman fosse impazzito e avesse ucciso tutti i suoi colleghi prima di impiccarsi.
La notizia allarma la band, ma il sound della casa è talmente buono da convincerli a restare, almeno fino alla casuale morte di un tecnico del suono, Krug. È però Dave Grohl a chiedere al gruppo di non andarsene: bisogna portare a casa l’album. Tuttavia, una notte, il frontman è spinto verso un losco seminterrato dove, oltre a un procione squartato e appeso al muro in una sorta di rituale sacrificale, trova la registrazione interrotta di una canzone che gli ridà l’ispirazione perduta.
Peccato che, in quello stesso momento, venga impossessato da uno spirito maligno, invasato dallo smanioso desiderio di concludere la canzone incompiuta. Così i Foo Fighters, stremati da un leader iniettato di ambizione demoniaca, sono costretti a ripetere una canzone che arriva alla durata di 44 minuti. Grazie all’aiuto della vicina di casa, Samantha (Whitney Cummings) e al propizio ritrovamento di un libro maledetto, la band sconfigge la maledizione, ma non senza le sue vittime.
L’horror autoironico in salsa splatter
Dopo l’iconica presenza di Grohl nelle vesti di Satana in Tenacious D e il Destino del Rock (2006), il cantante e chitarrista torna in abiti demoniaci. In Studio 666 nessuna maschera per il frontman, che si avvale di occhi porcini e canini affilati e una crescente passione per la carne cruda. Con un richiamo a La Casa (1981) di Sam Raimi e al Necromicon di Lovercraft, libro dei morti intessuto di pelle umana, la pellicola preme poi l’acceleratore sullo splatter, figlio della cultura cinematografica horror anni Ottanta.
Sono questi anni dei maggiori successi di John Carpenter, che compare come padrino musicale del film e autore del tema principale della colonna sonora. Sono anche gli anni che consacrarono gli Iron Maiden grazie a un album e alla sua famosa title track, The Number Of The Beast. Lo stesso successo intonato da Bruce Dickinson si avvale di un videoclip che è un’opera citazionista di film horror e compete con una grande hit di quegli anni, Thriller di Michael Jackson.
Si respira quindi un’atmosfera cimiteriale anni Ottanta, richiamata dal look del fattorino che porta il pollo alla parmigiana alla band, che conferma l’indissolubilità del legame tra musica e cinema in Studio 666. L’impostazione narrativa del film si appoggia dunque a fondamenta molto classiche di genere, dove la sperimentazione è infarcita dall’autoironia degli esordienti Foo Fighters sullo schermo.
L’identità del frontman come leader e carnefice
Sin dai primi minuti di film è chiaro come Grohl sia l’anima portante e creativa della band: senza la sua ispirazione, l’album non getta le sue fondamenta. Tuttavia, Studio 666 incanala la coesione di un gruppo dove ogni membro è importante e ha un ruolo contraddistintivo nella pellicola. Quest’ultima non è solo un viaggio rock da seguire a colpi di headbanging, ma è anche uno spazio di riflessione su quanto possa essere pericolosa per un gruppo l’egemonia creativa del suo frontman. Così la Storia ha dimostrato spesso come più gruppi si siano spezzati tra divergenze creative e spiriti megalomani dei musicisti.
Studio 666, usando l’arma dell’ironia e un esordiente approccio di genere, indaga questa componente, correlando l’invasamento del frontman alla possessione demoniaca. Non manca poi un rimando critico allo sfruttamento manageriale dei musicisti a solo scopo di lucro: un tema affrontato più volte nella storia musicale, che ritorna anche oggi con una dirompenza tristemente attuale. In questo modo Dave Grohl intesse uno speciale legame tra cinema e musica, che si avvale, tra l’altro, del cameo di Lionel Ritchie e della collaborazione di Roy Mayorga, batterista del gruppo alternative metal dei Ministry, sulla colonna sonora.
I Foo Fighters danno quindi luce a un prodotto ibrido, intessuto tra le citazioni della tradizione filmografica horror, proiettato in una dimensione autoironica che non ha paura di mostrare il suo lato più cheap e portavoce di una riflessione mai satura sul mondo della musica.
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