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Venezia 80- Adagio, criminalità stanca nell’apocalisse romana

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5 minuti di lettura

Adagio è la porta dell’inferno che si apre su una Roma aerea, ottenebrata a intermittenza dai blackout che la piegano in ginocchio e infuocata dalla luce dell’incendio che le incombe addosso, sempre sull’orizzonte dell’inquadratura, a ricordarci che il nuovo film di Sollima sta per fare crollare tutto, scrivendo la parola fine sulla sua personale criminalità romana.

Il film, in gara al Festival di Venezia, naviga adagio nella tensione di un poliziesco solido, che de-costruisce il gangster movie infiacchendone la fascinazione e scegliendo di angolarsi sul racconto di un declino, decadente memoria di un passato svestito dei suoi fasti e assediato da un caos che profetizza apocalisse.

Adagio, il declino di una Roma invecchiata

sollima adagio gianmarco franchini
Credits: Emanuela Scarpa

Dopo la parentesi americana, Sollima fa ritorno nella sua Roma, rallentando l’adrenalina del suo riconoscibile ritmo in un tempo che sembra invecchiato, vissuto e consumato come quello che grava sulle tre leggende che ne portano i segni nelle infermità del corpo. Adagio è ancora Stefano Sollima, lo è come summa dei racconti precedenti, come chiosa di una trilogia criminale romana, con i suoi randagi ingabbiati ai margini e una mitologia pronta a tramontare. Ma è anche in parte schiacciato nel suo intimismo, incerto, agile più in movimento che nei suoi ricercati momenti di stasi.

Nella Roma corrotta e assediata dal fuoco, le tenebre, la corruzione e il caldo asfissiante, Manuel (Gianmarco Franchini) canta davanti allo specchio mentre le luci al neon della camera ballano a intermittenza con la sua vanità. È un ragazzo giovane, che aspira ad avere qualche soldo, per portare le ragazze a cena e godersi alcuni sfizi. È un mondo vecchio, quello di Adagio, con un occhio teso alla nuova generazione. Fuori da quella stanza c’è suo padre, solo, accaldato, e con un principio di demenza.

È indubbio che Manuel sia un bravo ragazzo, dallo sguardo bonario all’ingenuità del volto. Lo è anche quando una parola d’ordine lo fa accedere a una festa esclusiva, dove scatta delle foto compromettenti a un importante politico, accendendo la trama di Adagio. Nel ricatto dei carabinieri ci è cascato con la genuinità di chi desidera solo di essere accettato, incastrandosi dentro coordinate socio-genitoriali che gli consentano di esistere secondo la dignità richiesta dal proprio passato.

L’onta che aleggia su di lui, terrorizzato all’idea di deludere il padre, lo scaraventa in una spirale di eventi che si permea di un peso sempre più opprimente, accerchiandolo in un labirinto stretto e senza vie d’uscita, dove l’unico orientamento possibile è quello dettato dalla bussola del re denaro.

Tra decadenza e speranza

adriano giannini sollima adagio
Credits: Emanuela Scarpa

Non c’è spazio per i sentimenti, in Adagio. Per i rapporti familiari, amicali, fraterni. In sottofondo suona ancora, afono, il canto stanco dei personaggi che giustificano le proprie azioni in nome del bene della famiglia. Ma poi le azioni vanno oltre, e delle relazioni tra padri e figli, violenza e morte, resta solo qualche cenere al vento.

C’è, però, un eco esausto e affaticato alla Banda della Magliana. In Adagio ci sono tre scheletri di ciò che è stato, traccia sciupata di un glamour sbiadito e impolverato in abiti malconci, sandali e calzini. Ci sono dei sontuosi -come sempre- Favino, Mastandrea e Servillo. E il tentativo, esile, di una redenzione irraggiungibile.

A Manuel viene sentenziata la sua pena in apertura: “non hai scelta”. Poi Sollima converge in direzione contraria, chiudendo un cerchio che odora di speranza. Lo fa con una visione di cinema personale, ravvisabile in ogni sua scelta di punteggiatura formale. Scorre, congeda e porta a casa con il mestiere di chi sa fare del cinema criminale il suo credo espressivo. Ma non eccelle per tutti, e divide gli umori di una Venezia ancora in cerca del suo vincitore.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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