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Alessandro Cattelan: una semplice domanda Netflix

Alessandro Cattelan: una semplice domanda, uno show da biscotto della fortuna

12 minuti di lettura

Come si fa ad essere felici? La domanda ci devasta. Anche se Alessandro Cattelan e il suo show Netflix disponibile dal 18 marzo la definisce semplice. A porsela è lo stesso uomo che fino a qualche anno fa dava il nome a un gruppo Facebook dal titolo eloquente: “Alessandro Cattelan cosa ridi che sta vita è un inferno?”. Un’altra domanda che devasta. Ma per il sempiterno conduttore di XFactor – l’ultima edizione in sua assenza è la nona stagione di Scrubs: inesistente – non è tutto sorrisi e moine.

Anzi. Sembra proprio giunto il momento dei bilanci; quelli importanti, quelli personali che guardano oltre il successo, la fama, i soldi. Gli stessi che quando arrivano in TV sanno di biscotto della fortuna: un po’ insipido e dagli insegnamenti facili.

Nonostante ciò, il conduttore piemontese è la scelta giusta per un programma dedicato alla ricerca della felicità (off topic: lo sapevate che Paul Thomas Anderson lo considera un film tristemente sottovalutato?).

Negli anni, Cattelan ha rappresentato per la TV italiana il simbolo di tutti i luoghi comuni (positivi) sulla giovinezza: energia, sorriso, speranza. Pedigree completo. Per lo storytelling generale e generalista, Cattelan è ancora oggi il giovincello della pay tv. Gli anni però sono ormai quarantuno, le figlie due, gli eredi nel piccolo schermo zero, mentre la carriera promettente fatica un po’ a lasciarsi alle spalle la retorica del nuovo che avanza.

La semplice domanda, dunque, diventa d’obbligo: come si fa ad essere felici? In sei brevi puntate, troppo convulse e movimentate per essere pillole di motivazione, ma al contempo così simili a quei libri statunitensi di self-help (non a caso divorati dai coetanei del conduttore), Alessandro Cattelan viaggia alla ricerca di risposte. E gli crediamo, proprio perché rappresenta una generazione arrivata al momento della verità. Non più giovani, non ancora Maestri, per citare il siparietto che Cattelan costruisce con l’aiuto di Paolo Sorrentino.

Alessandro Cattelan: Una semplice domanda ma con risposte curiose

Forte di questa credibilità, ci sediamo volentieri al posto del passeggero di un percorso metaforico e reale. Non a caso si cadenza ogni passaggio con veicoli che cambiano come le sfide: il caddie da Golf, la bici, il furgone da pesca, il pullman di gruppo. Tutto, come nello psicologismo spiccio, si dà per divenire metafora. Di cosa? Della vita, ovviamente. Il golf e le sue buche. I ricordi e i sogni.

Il regista premio Oscar non è l’unico grande nome ad animare Alessandro Cattelan: Una semplice domanda. Tra questi, Roberto Baggio, Gianluca Vialli, Danika Mori, Geppi Cucciari, Elio e Mo Gawdat. Un potpourri di personalità schiacciate più o meno bene in un format che dà il meglio di sé nei confronti tra il conduttore e gli altri, e che invece, in ciò che resta fuori, tra teatrini, voiceover e giochi-metafore, annoia un po’.

I confronti sono genuini e aprono brecce nella semplicità degli intervistati. L’ossessione di Baggio per le anatre di legno ci solleva, una follia un po’ vintage che racconta più delle parole. Vialli posa parole di marmo, dettate da una malattia che rimette in prospettiva la vita e fornisce alcune, semplici, risposte.

Generazione Arlecchino

Non tutti sono invitati a proporre rimedi dell’anima e spesso Cattelan è solo un riflesso di vite altre e possibili. Nell’episodio dedicato alle questioni di cuore siamo trascinati da un montaggio che affianca con afflato ironico il futuro di giovani coppie fedeli ai precetti cattolici allo spacco libertino di Danika Mori, giovane pornostar italiana. Cattelan è un arlecchino delle possibilità, prende tutti i colori e se li veste, come a tessere un’ideologia equilibrata e perfetta, figlia di tutti e meticcia.

Da questo punto di vista, Cattelan è un perfetto prodotto culturale. Un figlio degli anni ’80, che parla per cartoni animati e a cui il voiceover pubblicitario viene così bene perché, in fondo, nasce nel brillio di energia elettrostatica di un tubo catodico sintonizzato su uno spot.

Quando in Alessandro Cattelan: una semplice domanda trascorre una notte in un supermercato, sottolinea una giusta banalità: nessun luogo racconta meglio il consumismo. Allo stesso modo, però, possiamo dire che la ricerca di Alessandro Cattelan: una semplice domanda rappresenta, in una struttura pienamente derivativa dalla tv e dalla comunicazione statunitense, le difficoltà di trovare un centro – che qui chiamano felicità – che sia consistente.

Cattelan scava (con comprensibile superficialità) nelle religioni, nelle opinioni personali, nelle esperienze, creando un modello ibrido, personale, che incolla ideologie secolarizzate a trovate contemporanee, in un supermercato dei valori più votato alla felicità che all’equilibrio dell’Io. C’è più verità umana in Inside Out della Pixar, non c’è dubbio, ma molta più verità contemporanea in Alessandro Cattelan: una semplice domanda, che normalizza, con la semplicità fagocitante della tv generalista, l’ormai compiuto tramonto dei modelli.

In un mondo di arrivati, Cattelan ritrova risposte da linea di partenza: cosa faccio, chi sono. Più che del traguardo – manteniamo l’analogia sportiva, rimarcata nella serie – si parla di come scegliere le scarpe giuste per iniziare a correre. Quelle che calzano per noi. A dare volume alle riflessioni più comuni è Giorgio Piccinino, psicoterapeuta chiamato a confrontarsi con Cattelan in alcuni stacchi di riflessione che avrebbero giovato di uno spazio in più, magari rubato a qualche estenuante grafica catchy. Ma d’altronde, il conduttore ci aveva avvisati: il silenzio è mio nemico, uomo di parola.

E poi c’è la Cattelan

È da un po’ che Cattelan ha trasformato la crisi di mezza età, oggi crisi dei millennials, in una storia personale. Già con Da Grande, sfortunato programma Rai andato in onda nell’autunno del 2021, saggiava la possibilità di raccontare un cambiamento. Anche se con un format indeciso e posizionato sul canale sbagliato.

I Giovani trentenni o neo quarantenni saliti alla ribalta nell’era dei social media hanno da tempo iniziato una narrativa dell’esplorazione personale. Anche su Internet e in TV si diventa adulti. Ossia non più giovani e non ancora vecchi. Il limbo ignorato dalla cultura italiana a cui, a ragione, Cattelan vorrebbe ridare senso. Il Messaggerò chiosò la sfortuna di Da Grande registrandone la natura spuria e incolore, “che non piace né ai giovani né agli adulti”. Un destino che di poco sfiora Alessandro Cattelan: Una semplice domanda ma che non ne decreta il fallimento.

Non è il più o meno riuscito aspetto generalista a lasciare interdetto lo spettatore – il quale comunque finirà i sei episodi senza fatica per poi passare ad altro – quanto l’evidenza di un tronfio eccesso inconcludente che come nebbia avvolge episodi brevi ma pienissimi, incapaci di scegliere silenzio anche dopo le dichiarazioni più personali.

Perché come molti prodotti Netflix, anche qui arriva il circo degli stili, dei suoni, delle immagini che servirebbero a tenerti sveglio. Persino in un programma di soli trenta minuti servono cambi di formato (che sono poi un triste richiamo ai filtri Instagram) e un insopportabile cammeo dello stesso Cattelan durante i titoli di coda, che ci invita a proseguire con il “Prossimo episodio”. Quanto vuole impacchettarsi ancora una serie di principio così semplice? Quanto affanno per un biscotto della fortuna.

La commistione di fiction e realtà, realizzata con l’incontro tra lo stile documentario e una sceneggiatura che impone binari narrativi, con un climax finale che riporta Cattelan sul palco di XFactor come ad affrontare per l’ultima volta lo stomaco della balena, è farraginosa e spegne anche le migliori intuizioni.

Netflix e Prime fanno a pugni per conquistarsi lo scranno di nuova tv vecchio stampo. Quella dello zapping, dei programmi senza pensiero, che a volte ti spengono in un sorriso – Lol – e altre ti elargiscono riflessioni trite ma cucite a mano, come Cattelan. Il presentatore non è solo un ibrido di età e modelli. Già con EPCC, Late Show di Sky, si era tentato uno spaghetti-jimmyfellon. D’altronde anche Mike Bongiorno fu il ponte immaginario – ma sostanziale – tra Italia e cultura americana.

Con Alessandro Cattelan: una semplice domanda si cerca ora la via dei documentari personali, intimisti, motivazionali. Il risultato fa simpatia, perlomeno incuriosisce, ma è un pasticciaccio buffo che scorre e scompare.

Ci auguriamo però possa essere un nuovo inizio per un presentatore che merita un programma in cui brillare, capace di metterne in luce le indiscutibili virtù che questa serie utilizza alla stregua di una pubblicità qualsiasi: bello da sentire, sufficiente da vedere, ma non abbastanza per convincerci a comprare.

A Cattelan serve – e Cattelan merita – la possibilità di costruirsi una carriera che ne giustifichi anche passaggi chiave come la conduzione di Sanremo. Il tentativo è rispettabile, perché la strada non può essere simile a quella di chi in passato ha raggiunto la punta di diamante della tv generalista partendo dai giochi a premio, ma la transizione tra talent, late show e ibridi streaming meriterebbe forse un’attenzione in più. Difficoltà e sfide, che riportano Cattelan all’inizio: come si fa ad essere felici? Chissà, sta vita è n’inferno.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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