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Venezia 81 – El jockey, per morire e rinascere

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5 minuti di lettura

Se per Tim Burton, Fuori concorso a Venezia con Beetlejuice Beetlejuice, non serve rinascere per trovare sé stessi, c’è chi non la pensa allo stesso modo. Non vale ad esempio per Luis Ortega: argentino classe 1980, probabilmente la rivelazione (almeno per noi, nonostante faccia film dal 1999) di questa Venezia81, dove la sua ultima pellicola, El jockey, è stata presentata in Concorso. Tante storie e tanti drammi non sostituiscono il senso antropico, quasi viscerale, del discorso complesso, ma trattato con delicatezza (paradossalmente) dall’irriverenza del film selezionato in Concorso. El jockey è un inno all’identificazione di genere e in generale della propria identità personale (e sessuale). L’essenza del tutto, del possibile e di cosa volere (perché volere è potere) dal futuro.

El jockey, un’identità

Úrsula Coberó sfila sul red carpet di Venezia e saluta i fan
Úrsula Coberó sfila sul red carpet di Venezia e saluta i fan (ph: Giorgio Zucchiatti)

Luis Ortega lo scrive così, quello che verrà, attraverso una storia divaricante, che in realtà gira più in tondo di quello che sembra. Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart, bravissimo) è uno tra i più importanti fantini dell’Argentina, tuttavia il suo problema con le droghe e in generale il suo comportamento autodistruttivo mettono a serio rischio la carriera e anche il rapporto con la fidanzata Abril (niente poco meno che Tokyo dalla Casa di Carta, Úrsula Coberó). Dopo un brutto incidente, nel giorno della sua gara più importante, Remo scappa dall’ospedale dove è ricoverato e inizia a vagare per le strade di Buenos Aires, alla ricerca di una sua identità.

Morire, rinascere, e avere la possibilità di riscrivere una propria realtà alternativa. Ricominciare da capo è uno dei cliché più quotati dal cinema, ma El jockey in parte sfrutta e in altra parte modifica i dettami del genere. Ortega mette in scena un personaggio inetto e illuso, che dalle ceneri di un disastro porta avanti una richiesta che la stessa Abril le ha fatto: «Cosa devo fare per imparare ad amarti?», «Muori e rinasci», risponde lei.

E così è. La storia di una ripartenza, schizoide, improbabile (ovviamente), di una nascita. Il parto di sé stesso, la creatura che veste pelle nuova, ma che per farlo ha bisogno di partire dal suo stesso vecchio rivestimento. C’è tanto amore in questo, e anche se in secondo piano, molto erotismo. Úrsula Coberó, ormai affermatasi come diva, è un corpo da esplorare con tanti volti, aspetti, sinuosità; è incinta, ma non si sa il sesso del bambino, né tanto meno si nota la gravidanza. In El jockey la sessualità si riscopre a partire da sé stessi, e, se è proprio vero che amare significa annullarsi nell’altro, anche a partire dalla connessione con il partner.

La paura del futuro, tra creature lynchiane e (ri)nascite

Nahuel Pérez Biscayart e Úrsula Coberó in una scena di el jockey in concorso a Venezia81

Il senso implicito è accompagnato da quello esplicito. Il sesso esplicito comunica con quello implicito. Remo scopre, riscopre, vaga e vaneggia e cambia genere (diventa Lola). Eppure, nonostante tutto, El jockey non è un film appartenente alla categoria LGBTQ+. Non stigmatizza né valorizza. Semplicemente è e c’è. Più che altro Ortega sfrutta il genere – e come anticipato poc’anzi, lo cambia – ne fa un uso strettamente personale, entrando (ma non del tutto) nella psiche di un personaggio incomprensibile.

Remo è al pari di dinamite umana, è il personaggio incarnato del sogno lynchiano, della evocativa creatura di Eraserhead che spinge nella direzione di un’uscita, finalmente, verso un mondo più sensato. Ma solo una madre può dare e concedere quell’amore insensato, tragicomico e assoluto che permette di trovare al contrario quella sensazione di compiutezza. Attraverso la paura del futuro, di quel mondo che in realtà così sensato e giusto poi non è, El jockey narra di una madre (sempre Abril) e di un padre (indefinito). In una realtà sempre più destabilizzata economicamente, socialmente, e qualsiasi avverbio con -ente, trovare sé stessi è l’unico modo per ritrovare qualcos’altro, quello che manca. Vale per tutti, come vale per il cinema.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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