Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice. Sentire a ripetizione questo nome dopo 36 anni (anche per chi è più giovane) è una sensazione strana fatta di emozioni tra il nostalgico e il… viscido.
Forse è l’hype, che notoriamente un film come Beetlejuice Beetlejuice – in apertura fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 81 – si porta dietro, o forse sarà la scelta di Tim Burton, che il capitolo precedente lo aveva girato a 30 anni di età, di girare la scena del prologo come la sequenza del primo film, sfruttando quella sua bravura unica nel transitare dallo spazio scenografico reale a quello fittizio in scala del modellino.
Beetlejuice Beetlejuice, chi non resuscita si rivede
È così che sbarca al Lido il primo film della kermesse veneziana, tra la nostalgia, non solo di un film cult, ma anche il modo di fare cinema completamente avulso dalla realtà contemporanea. L’artigianalità di Tim Burton procede fluida, densa e, appunto, con una scorrevolezza mai persa, neanche quando lavorava per la grande D, tra quel remake di Dumbo e la collaborazione di Netflix per la serie su Mercoledì della famiglia Addams (che a onor del vero ha permesso a Burton di scoprire il talento di Jenna Ortega, qui nei panni di Astrid).
Beetlejuice Beetlejuice è una meteora, il suo manifesto, la presa di posizione e dichiarazione di non-morte, di non-apoliticità. La sua storia è non a caso strettamente connessa al discorso sull’estrema digitalizzazione del cinema oggi. Lydia Deetz (Wynona Rider), ormai cresciuta, ha una figlia, Astrid, adolescente e ribelle, e conduce un programma televisivo di successo, incentrato sul paranormale. Il passato si ripresenta quando insieme a Delia (Catherine O’Hara) tornano a Winter River dopo una tragedia famigliare, e la ritrovano ancora impossessata da Beetlejuice (il sempre esplosivo Michael Keaton). La vita di Lydia viene sconvolta quando Astrid scopre il misterioso modellino della città in soffitta e il portale per l’Aldilà viene accidentalmente aperto.
Jenna Ortega come Wynona Rider: stesse complessità, generazione diversa
Un antro, quello per il regno dei morti, che qui si presenta ancora più nettamente miscelato con quello dei vivi. Aspetto tipico di Tim Burton (il quale però non firma la sceneggiatura, scritta a quattro mani invece da Alfred Gough e Miles Millar) quello del legame tra i due regni, mortale e immortale, salvifico e dissacrante.
Beetlejuice Beetlejuice (s)compone la modernità. In men che non si dica sgretola la concezione del cinema contemporaneo e della narrazione classica. Da una parte lo fa rendendo un’intera cittadina schiava nelle mani di un essere, Beetlejuice, il mostro-trickster, altra caricatura ricorrente nei film di Burton. Dall’altra riprende la figura dell’outcast, come suo solito, proponendo però un’alternativa intrigante al/la ragazzino/a attratti morbosamente dal macabro.
Jenna Ortega è infatti una ragazza diversa – ma non così tanto – dai suoi compagni. Attivista, materialista, ripudia l’orrore e non crede ai fantasmi (cosa che poi in Beetlejuice Beetlejuice la metterà nei guai). La cosa a cui lei e la sua generazione (iconicamente incarnata nella Gen Z) sono abituati a credere non è più la fantasia. Bensì la più sterile, concreta, “calda”, realtà del nostro mondo.
Beetlejuice Beetlejuice racconta la morte della fantasia…
Sembra che i ragazzi di oggi non vogliano più sognare. Cercano invece la soluzione ai mille problemi della contemporaneità. È la solita storia, insomma: la realtà supera la rappresentazione, che giace in un contesto in cui il disinnamoramento dei giovani è causa della narrazione. Una situazione che man mano, come ha ricordato anche il direttore della mostra Alberto Barbera, si unisce alle nuove forme dell’audiovisivo: i social, Youtube e TikTok, dove i giovani passano gran parte del loro tempo.
Beetlejuice Beetlejuice è così l’estremizzazione di un linguaggio in crisi, ma che cerca di trovarne uno alternativo in un mondo dove sembra impossibile arrivare a uno efficace. Plastilina, modellismo, l’insistenza nell’utilizzare pupazzi animati e non. Ne è un esempio la fantastica riproduzione di Willem Dafoe, che in Beetlejuice Beetlejuice interpreta un attore della televisione; o la ricomposizione dei pezzi di Dolores, vecchia fiamma di Beetlejuice interpretata da Monica Bellucci. Di conseguenza, ne sorge la necessità di espellere la minaccia di ogni regista oggi, la facilità con cui si producono le immagini. Un rifiuto categorico, quasi scontato ma non telefonato, di Tim Burton, esplicitato in una scena dove gli invitati a un matrimonio vengono inghiottiti dai loro stessi smartphone.
… o del cinema?
La morte, non è insomma, solo degli uomini, o del nostro mondo. La morte è anche del cinema, e non c’è più niente di vivo nel ricrearla materialmente: qualcosa di materiale che si può toccare, vedere (?), in un tangibile attimo folgorato dall’autore che negli anni, più di tutti, ha solcato il limbo tra i due mondi. Tim Burton Tim Burton Tim Burton.
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