Un tappeto sporco ai piedi di una vasca da bagno con sopra degli scarponi. Appoggiata alla parete un ritratto di Adolf Hitler. Dentro la vasca una donna, intenta forse a farsi un bagno in quella che era la stanza da bagno dell’appartamento di Monaco del Führer e di Eva Braun: simbolicamente parlando si sta lavando via le barbarie compiute dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e sta restituendo loro la sporcizia e tutto il marcio che hanno prodotto.
Quello che sembra essere l’incipit di un romanzo in realtà è una breve descrizione e interpretazione di una delle fotografie più iconiche di sempre, che ritrae la celebre fotografa Elisabeth “Lee” Miller, fotografata dal fidato collaboratore David Sherman e che ha ispirato qui in Italia il romanzo La vasca del Führer di Serena Dandini, edito Einaudi Stile Libero.
Chi era, però, veramente Lee Miller? A questa domanda ha cercato di rispondere Ellen Kuras, direttrice della fotografia per Spike Lee, Jim Jarmusch, Martin Scorsese e Michel Gondry che ha diretto e prodotto il biopic Lee Miller dedicato alla celebre fotografa americana. Il film, uscito in Canada nel 2023 e in Regno Unito e America nel 2024, è uscito recentemente anche nelle sale italiane.
La trama di Lee Miller
Lee Miller racconta la vita della leggendaria fotoreporter americana, qui interpretata da Kate Winslet, che ha anche co-prodotto il film ed è stata candidata ai Golden Globes 2025 per questo ruolo. Donna forte e indipendente, incapace di stare in uno stesso posto per molto tempo, prima modella e musa «brava a fotografare, bere e fare sesso, anche nello stesso momento», Lee Miller vede nella fotografia la sua vera ragione di vita, qualcosa che finalmente le faccia capire chi è veramente.
Dopo aver già lavorato come fotografa in giro per il mondo e aver scattato foto, ad esempio, in Siria, la donna inizia a proporre collaborazioni per la rivista Vogue a Londra, gestita da Audrey Withers, per la quale fotografa i danni del bombardamento della città, e nel momento in cui gli Stati Uniti entrano in guerra nel 1941 otterrà un permesso per andare sul fronte come fotoreporter.
Talvolta assieme a Sherman (qui interpretato da Andy Samberg), fotografo per Life, Miller documenta con le sue foto quanto accade, per esempio, in Normandia durante la Liberazione, ma anche la scoperta delle atrocità del campo di Dachau, passando per la residenza di Monaco del Führer e la celebre foto nella vasca da bagno.
In questo film non vedremo persone come Man Ray e Pablo Picasso, visitatori della residenza di Lee Miller a Farley Farm House nel Sussex inglese, non vedremo molto della fotografa in quanto icona, ma avremo modo di conoscerla come donna: oltre al rapporto con Sherman, anche quello con il pittore e mercante d’arte Roland Penrose (Alexander Skarsgård), che diventerà suo marito e con cui avrà un figlio, Anthony, ma soprattutto la storia dietro a fotografie celebri in tutto il mondo e che saranno note principalmente dopo la morte della fotografa grazie al lavoro del figlio e del marito.
Le molte vite di Lee Miller
Il biopic di Ellen Kuras trae ispirazione da Le molte vite di Lee Miller, libro scritto da Anthony Penrose e corredato da fotografie che racconta la vita – o meglio le vite – della madre Lee Miller, che da musa di Jean Cocteau e Man Ray dalla vita bohémien a Parigi diventa fotoreporter grazie alla quale conosciamo tutte le atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale. Il film di Kuras, inoltre, vede la partecipazione di un cast di attori affermati internazionalmente come Kate Winslet, Andy Samberg, Alexander Skarsgård, Marion Cotillard e Josh O’Connor, quest’ultimo visto recentemente in Challengers e La chimera.
Sebbene le scene iniziali lascino intendere un personaggio molto sregolato e sopra gli schemi, come possono essere la Maria Callas ritratta da Pablo Larraín o la Judy Garland di Peter Goold, e come in realtà possono essere tutte le icone, Lee Miller ci mostra, invece, una donna non soltanto fedele al suo lavoro di giornalista e fotografa, ma anche fragile e piena di ferite e contraddizioni, ma senza offrirci, però, una parabola di ascesa e caduta tipica di racconti di questo tipo. Kuras, dunque, mette in scena una Lee Miller priva di tutta la sua iconicità e mondanità e senza dare troppo spazio alla sua figura di artista.
Nel fare ciò, la regista usa l’espediente dell’intervista e alterna i momenti di quest’ultima – ambientata nel 1977 – a momenti della vita di Lee Miller. I racconti degli episodi chiave della fotografa fra gli anni Trenta e Quaranta sono introdotti o intervallati dalle domande che il giornalista interpretato da Josh O’Connor – che poi si scoprirà essere molto di più, ma si cercherà di non anticipare nulla – fa a un’ormai Lee Miller anziana nella sua residenza di Farley Farm House, dove abbiamo a che fare con una donna che mostra altre foto rispetto a quelle già note che non ha mai voluto rendere pubbliche e la cui storia è disposta a raccontare al giornalista.
Lee Miller come fotoreporter
Tenendo a mente il titolo della biografia di Anthony Penrose, ci si concentrerà ora sulla vita di Lee Miller come fotografa, forse la più importante delle tante vite della protagonista. Anche se nel film non viene menzionata, la nascita della passione per la fotografia è risalente al periodo in cui la protagonista faceva da modella a Parigi per Man Ray, che inizialmente non aveva intenzione di avere allievi, ma poi prese Miller sotto la sua ala protettiva e, oltre a usarla come modella e musa, la iniziò alla fotografia al punto che si dice che alcune foto del fotografo surrealista siano, in realtà, state scattate da Miller.
Una delle cose su cui forse il film si poteva concentrare era anche questa vita di Miller da musa e la sua evoluzione in una donna che sa essere molto di più di una semplice Galatea forgiata dal proprio Pigmalione. In ogni caso, dopo aver affinato la sua fotografia in giro per il mondo, Miller inizia a prendere seriamente il lavoro di fotoreporter, inizialmente come ricerca di avventura e di un senso della vita, ma successivamente come una vera e propria missione verso gli altri.
La missione di cui Miller si sente investita è quella di raccontare il vero volto della guerra, in questo caso la Seconda Guerra Mondiale, cosa che le causerà non pochi attriti con Withers, in quanto la censura britannica, nonostante le sue insistenze, non vuole far pubblicare su Vogue certe foto per non angosciare troppo i lettori e permettere loro di andare avanti e guardare al futuro.
Miller documenta come, per esempio, nella liberazione in Normandia dopo la battaglia di Saint-Malo delle donne vengano rasate e accusate di essere prostitute e collaborazioniste dalla gente del posto, quando in realtà sono state tratte in inganno da uomini che pensavano di amare veramente. Un altro episodio significativo riguarda la visita a Dachau nel 1945 a seguito della liberazione dei campi di concentramento, dove Miller fotografa una bambina il cui sguardo impaurito allude a come i soldati tedeschi trattassero certi bambini, alle volte commettendo persino degli stupri.
Lee Miller come donna che lotta con la sofferenza
Quest’ultimo elemento ci permette di fare un collegamento con la vita di Lee Miller come donna, che per forza di cose si intreccia con la sua vita da fotografa. A una delle domande del giornalista, Miller risponde dicendo che ci sono vite che nascondono delle ferite invisibili. Con la sua attività di fotoreporter, Miller vuole in qualche modo far emergere le sue di ferite profonde: da un lato c’è uno stupro che ha subito a sette anni quando era a Brooklyn con la famiglia, e dall’altro la scomparsa di persone a lei care come Jean D’Ayen, che ha combattuto per la Resistenza, ma poi dichiarato scomparso.
Oltre ai già citati attriti con Withers, Miller si ritrova anche a litigare con Roland, in quanto, alla fine della guerra, quest’ultimo voleva tornare a casa a Londra, quando la moglie voleva invece continuare a cercare la verità sulle persone scomparse in guerra e su quanto commesso dai nazisti. Tutto ciò, combinati ai problemi legati all’alcolismo e al disturbo post-traumatico da stress, implicano in Miller una certa ossessione nel comunicare la verità, ma allo stesso tempo nel far sì di dare voce a chi non riesce ad andare avanti.
È qui, dunque, che Lee Miller viene spogliata di ogni iconicità e mondanità. Non abbiamo più il mito intoccabile della fotografia americana e non, acclamata internazionalmente da riviste di moda e non, ma abbiamo una donna che vuole combattere contro i propri demoni, che vuole trovare una nuova voce per comunicare la sua sofferenza, e lo fa con la fotografia, che le permette di arrivare a più persone e di testimoniare quanto sia difficile andare avanti e guardare al futuro, in quanto certe ferite sono destinate a restare per sempre. Lee Miller, dunque, ha trovato nella fotografia il vero scopo della vita: raccontare l’indicibile, e così facendo dando giustizia a chi è sempre rimasto inascoltato.
Lee Miller, opera prima di Ellen Kuras
Sebbene sia un’opera prima e qualche difetto da opera prima ce l’abbia, Lee Miller di Ellen Kuras riesce nell’obiettivo di darci un ritratto fedele di una leggenda della fotografia senza idealizzarla troppo, ma ritraendola nella sua umanità. Lee Miller non mostra soltanto le difficoltà di una donna di fare carriera in un contesto difficile come la guerra, ma dimostra anche come dietro ogni opera d’arte, che sia un dipinto o una fotografia, si nasconda un mondo, e come questo mondo sia solitamente quello intimo del suo artista.
Oltre che essere la storia di una musa, una modella, una giornalista e una fotografa, quella di Lee Miller è soprattutto la storia di una donna che attraverso la sua arte non solo ci ha aiutato a fare chiarezza sulle atrocità della Storia, ma ha anche illustrato come sia possibile trovare modi sempre nuovi per esprimere l’indicibile e farsi carico dell’impossibilità dei più di gridare il proprio dolore al mondo donandoci opere di grande patrimonio umanitario destinate a essere ricordate per sempre.
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