Il cinema come lo abbiamo conosciuto fino ad ora sta per collassare. Un mondo immerso nelle immagini come il nostro ha perso il senso liturgico della sala -esigere altrimenti sarebbe anacronistico-, le definizioni vengono scardinate di giorno in giorno con la nascita di nuovi formati audiovisivi che certamente non sono film, ma che non possono continuare ad essere ignorati dagli addetti ai lavori del settore ed il confine fra la realtà produttiva di un set e l’astrazione assoluta di copiosi green-screen prima e di Intelligenze Artificiali ora, va sempre più assottigliandosi.
In questo contesto è bene collocare Grand Theft Hamlet, disponibile su MUBI dal 21 febbraio, uno dei più avveniristici progetti degli ultimi tempi: il cinema del futuro è questo, ed è il caso di parlarne seriamente senza nascondersi dietro ai suoi lampi di genio ed ai suoi innegabili limiti.
Parlare di Grand Theft Hamlet
Sam Crane e Mark Oosterveen, sono terrorizzati dal futuro: entrambi attori professionisti, sono bloccati in casa assieme al resto del mondo dalla pandemia di COVID-19. Non sanno se torneranno mai a fare quello che amano e se riusciranno a mantenersi senza poter partecipare a produzioni teatrali. Un giorno la folle idea: mettere in scena una versione di Amleto interamente sui server online del videogioco Grand Theft Auto V (2013). Aiutati dalla regista Pinny Grylls, i tre si mettono a documentare i provini e le successive prove per preparare il debutto della loro compagnia virtuale, fino al temutissimo giorno della prima.
Grand Theft Hamlet e il documentario
Percepito dal pubblico generalista più come strumento a servizio di un soggetto o una causa, piuttosto che come vera forma d’espressione artistica, il documentario gode in compenso di un’aura di autorevolezza capace di accaparrarsi la fiducia dei suoi spettatori.
Eppure è da Nanuk l’Eschimese (1922), ovvero dalla sua ufficiale nascita, che il medium in questione mette alla prova l’attendibilità che è normale attribuirgli: del documento antropologico sulla vita e le usanze degli eschimesi non rimase quasi nulla quando, pochi mesi dopo la messa in circolazione del film, si venne a sapere che il regista aveva organizzato alcune delle riprese, con tanto di igloo ricostruito appositamente e rituali di pesca accattivanti per il pubblico ma desueti per le popolazioni filmate. Eppure Nanuk l’Eschimese continua ad essere considerato il primo documentario, quindi comunque ed inequivocabilmente associato alla rappresentazione del vero.
Flaherty non è certo stato l’ultimo a “sporcare” la veridicità del documentario, anzi: tutti i lavori più importanti del “genere” sono stati proprio quelli che si sono confrontati con il sottile equilibrio da mantenere fra finzione e realtà; le filmografie di Werner Herzog, di Jafar Panahi, Abbas Kiarostami, Dziga Vertov e tanti altri si interrogano proprio su quale sia il confine fra film e documentario.
Grand Theft Hamlet esaspera ulteriormente la domanda: quanto di quello che vedo è reale se è tutto renderizzato dentro ad un videogioco? L’interrogativo non è affatto scontato, specialmente considerando che è analogo a quello posto da certi studiosi nei confronti del documentario d’animazione –Valzer con Bashir (2008), Flee (2021) per fare qualche esempio-; quale oggettività può esserci in immagini per loro natura intangibili, e quindi ultra-mediate?
Di fatto, buona parte di Grand Theft Hamlet è messa in scena come drammatizzazione di conversazioni che probabilmente si sono svolte a microfoni spenti: da un certo punto in poi i protagonisti cominciano addirittura ad esprimersi accompagnando alla chat vocale le emotes –un set di azioni e gesti pre-animati presenti all’interno del gioco per gli avatar- come se stessero realmente gesticolando durante una conversazione.
Eppure, proprio come per il documentario animato, ciò che resta veramente del film sono le genuine interazioni fra i personaggi e i giocatori “random” che rispondono alla loro chiamata per partecipare allo spettacolo, sia come attori che come spettatori. Si tratta di persone che, per pura coincidenza, si sono trovate connesse da un gioco che di per sé è incredibilmente sociale. Questi scambi, questo dialogare, sono l’aspetto autenticamente documentaristico di Grand Theft Hamlet: conversazioni catturate liberamente che raccontano qualcosa del carattere, delle condizioni materiali e del modo di interagire dei soggetti ripresi, in questo caso registrati.
La natura stessa delle riprese, realizzate interamente con il telefono virtuale in dotazione ad ogni personaggio di GTA Online, riflette quella del linguaggio documentaristico classico: si inquadrano i volti, in particolare degli NPC (non-playable-characters, ovvero tutti i personaggi non giocabili e controllati dal gioco stesso), i tramonti, gli skyline; vi sono riprese col drone -ovviamente sempre internamente al complessissimo mondo di gioco di GTA-, musiche d’accompagnamento, citazioni a generi cinematografici con le loro ben precise estetiche (Quei bravi ragazzi su tutto). Insomma, Grand Theft Hamlet contiene moltissimi spunti interessanti sulla natura stessa del documentario.
Grand Theft Hamlet e il videogioco
Pare il caso di spiegare brevemente come funzioni GTA a chi non abbia la minima idea di cosa sia: il gioco è da più di dieci anni in cima a tutte le classifiche di vendita videoludiche. Si tratta di un single-player (giocatore singolo), story-driven (con trama) ambientato in una versione grottesca e satirica dell’America dei primi anni 2000.
Los Santos è una fittizia Los Angeles nella quale spietati capitalisti, gang assetate di sangue, vanesi attori e caricature del medio cittadino statunitense si inseguono, fanno esplodere, sparano e in generale ammazzano. Oltre alla storia principale, il giocatore può scegliere di giocare anche la modalità multi-player, ovvero online collegato ad altri giocatori, le cui possibilità sono infinite: dal partecipare a serate karaoke, al possedere appartamenti, fino al frequentare strip club, tutto è giocabile in compagnia.
Al centro di tutta la saga di GTA sta proprio la satira sul sogno americano e la violenza che ne deriva: se online si può cercare di vivere una vita tranquilla, saranno molti di più i giocatori che sceglieranno invece di crivellare chiunque gli si avvicini, di bombardare con aerei militari gli appartamenti dei player nemici e di attaccare, solo per il mero gusto di farlo, gli NPC che abitano le strade di Los Santos. Proprio per questo GTA è da sempre stato al centro di numerosissime polemiche circa il suo incitare alla violenza i giocatori più influenzabili. La cosa affascinante riguardo Grand Theft Hamlet è che gli stessi attori riconoscono come l’ultraviolento mondo di GTA sia perfetto per contenere l’ultraviolenza di Shakespeare: Tito Andronico, Macbeth e Amleto, sono fra le tragedie più sanguinarie mai scritte.
Pare inoltre necessario sottolineare come l’essenza di GTA Online sia l’interazione sociale: il divertimento deriva dal creare narrative di vendetta e scontro con altri giocatori, oppure dal fare follie in compagnia di amici, o in ultimo dal conoscere nuove persone incontrate per caso. Si sviluppa insomma un complesso microcosmo di rapporti che talvolta finiscono con l’essere severamente regolati: esistono infatti server completamente dedicati al gioco di ruolo, nei quali tutti i giocatori seguono un set di regole condivise che consente loro di interpretare una parte ben precisa, sia essa quella del poliziotto o del semplice cittadino.
Girare Grand Theft Hamlet all’interno di un server pubblico, rischiando costantemente di essere investiti o fatti saltare in aria indica due cose: la simbolica presa di coscienza del mondo circostante piombato nel caos a causa della pandemia e la democratizzazione del teatro, che è per tutti e non solo per chi lo fa.
Grand Theft Hamlet e il teatro
In Grand Theft Hamlet si può delineare un discorso più ampio sul teatro come forma artistica partecipativa per eccellenza: vi è una sequenza nella quale un giocatore casualmente assiste alle prove; i protagonisti finiscono per invitarlo a salire sul palco. Il giocatore confessa di non saper recitare e di saper parlare poco l’inglese, al ché Crane e compagnia lo esortano a recitare qualcosa nella sua lingua. Il giocatore comincia quindi a recitare alcuni versi del Corano. Dopo un iniziale sconcerto, tutti gli attori si dimostrano entusiasti della performance.
Questo è teatro democratico, in cui tutto può essere degno del palco: non solo questa esemplare sequenza, ma la naturale inclinazione della compagnia a scambiarsi continuamente di ruolo col proprio pubblico, in un costante gioco di inversione in cui tutti recitano e tutti guardano. Così funziona un videogioco online, nel quale siamo attori e spettatori allo stesso tempo, e così funziona il mondo dei social e la contemporanea figura del prosumer, produttore e consumatore di media al tempo stesso.
Tutti siamo coinvolti in questo circolo vizioso di parti invertite per cui produciamo e consumiamo dati per le grandi aziende, ogni volta che postiamo, clicchiamo o commentiamo. Ma se il processo di democratizzazione teatrale di Grand Theft Hamlet è encomiabile, la falsa uguaglianza dei social non lo è affatto, ed è stata ulteriormente aggravata dall’impatto sociale della pandemia.
Anche in questo la partecipazione di altre persone diventa fondamentale nel film: ci ricorda la fame di umanità che tutti provammo in quel buio periodo e cattura alla perfezione la sensazione di intrappolamento che oppresse tanti. Come il suo predecessore spirituale, ma meno ispirato, We met in Virtual Reality (2022), il film di Crane e Grylls mostra come i social possono aiutare anche in momenti difficilissimi ad avvicinare le persone, nonostante alcuni dei loro aspetti più apertamente distopici.
Grand Theft Hamlet e il Mondo Digitale
La prima cosa a impressionare di Grand Theft Hamlet è la sottile, ma fondamentale, enfasi posta sul ruolo dell’avatar virtuale, ossia l’aspetto fisico con cui è possibile ricreare sé stessi all’interno di GTA Online oppure scegliere di impersonare qualcun altro. “Can I look like my mother?” domanda Pinny Grylls mentre crea il suo personaggio, poi si corregge con: “Actually, I wanna look like Tilda Swinton.” Il momento è veloce e solo apparentemente secondario: con due semplicissime frasi, Grand Theft Hamlet muove l’intero problema dell’identità su internet.
Io posso essere me stesso, oppure qualcuno di diverso, che oltre a rimandare tematicamente sia alla duplice natura del documentario di Flaherty sia all’idea stessa di attorialità, consente anche di evitare qualsiasi forma di ripercussione. Non è un caso che le interazioni sociali appaiano meno complesse di quello che sono nella realtà, non solo sui server di GTA ma sui social in generale: se questo da un lato regala connessioni un tempo impensabili, come quelle che hanno reso possibile questo film, dall’altro evidenzia la facilità con cui è possibile perseguitare un altro utente, sia nei commenti sotto un post Instagram sia sparandogli con un bazooka su GTA.
La seconda questione fondamentale legata al mondo digitale riguarda chi oggi non può collegarsi e che quindi non esiste. Ciò può essere dovuto a due condizioni: o non si ha accesso diretto alle apparecchiature e alle infrastrutture necessarie per avere una presenza su internet, oppure non si posseggono le competenze digitali operative che consentono di maneggiare con efficacia i social. In entrambi i casi vi sono barriere d’accesso che fomentano i fenomeni di digital divide e digital inequality, la ulteriore marginalizzazione di persone che già si trovano in contesti marginali.
Grand Theft Hamlet affronta il problema in due occasioni: la prima è l’incontro con una fantastica attrice che i protagonisti vogliono subito reclutare, costretta a rinunciare poiché collegata da una console non sua; la seconda è la costante attenzione dedicata ad inquadrare i volti degli NPC: sono volti vuoti, parte di un’intelligenza artificiale che li fa muovere nel mondo di gioco, ma la gentilezza con cui vengono studiati dalla camera li umanizza e li trasforma in tutti coloro che passarono i giorni del COVID rinchiusi in un silenzio forzato.
Grand Theft Hamlet e l’intrattenimento
L’ultima questione centrale, ha strettamente a che fare con la natura stessa dell’intrattenimento che consumiamo su internet: come già accennato prima, ormai esistono prodotti audiovisivi che non sarebbe corretto classificare come film ma che è poco produttivo continuare a definire secondari.
Dai server di gioco di ruolo su GTA, vengono costantemente prodotti video, spesso postati su YouTube con trame, personaggi ricorrenti e attenzioni alla forma degne delle migliori serie tv. Questa tendenza, da alcuni definita machinima -crisi di macchina e cinema-, di creare opere audiovisive con motori grafici pre-esistenti è ora più che mai degna di essere studiata e apprezzata.
Un esempio sono i video di BedBananas su Star Citizen, quelli di Charborg su GTA, le multiple stagioni di trama che certi server di Project Zomboid caricano poi sulle piattaforme. Molti di questi contenuti sono formalmente ben più complessi di Grand Theft Hamlet, che nonostante sia uno dei film più stimolanti degli ultimi anni, rimane abbastanza elementare nel suo linguaggio cinematografico: più che un bel film nel senso assoluto, è un film talmente ricco di spunti da non poter essere ignorato.
Grand Theft Hamlet, in breve
Il cinema sta cambiando in modo repentino e l’integrazione di QR code all’interno dei film ne è la prova; ancora più evidente è come all’esperienza collettiva della sala si sia sostituita la visione filtrata e privata di schermi sempre più piccoli. Il sottobosco creativo di videomaker e narratori prosumer non vuole grandi budget e produzioni arzigogolate, solo visualizzazioni.
Viene perciò da chiedersi, quando il cinema e coloro che lo studiano porgeranno l’orecchio alla radicale voce del cambiamento che sta avvenendo su internet? Quando potremo superare la pretesa di realismo del documentario social, peraltro già contaminata, e vedere sul grande schermo la prima saga epica girata interamente dentro Minecraft?
Seguici su Instagram, Facebook e Telegram per scoprire tutti i nostri contenuti!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!