In occasione dell’uscita del suo nuovo film Broker – Le Buone Stelle (uscito in anteprima nazionale il 21 settembre, arriverà nelle sale il 13 ottobre), ripercorriamo la carriera di Hirokazu Kore’eda, da anni simbolo del cinema contemporaneo giapponese. Quali film vedere per primi e come innamorarsi di un grande poeta della quotidianità.
Hirokazu Kore’eda: di chi stiamo parlando
Hirokazu Kore’eda nasce a Tokyo nel 1962, studia all’Università di Waseda dove si laurea nel 1987 e, dopo una breve parentesi nel documentaristico televisivo, nel 1995 gira il suo primo lungometraggio dal titolo Maborosi. L’opera prima di Hirokazu Kore’eda va subito in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia dove vince il premio Osella alla miglior regia, merito di una gestione dei tempi degna di un veterano, trattando elegantemente una tematica delicata come quella dell’elaborazione del lutto (che si ripresenterà più volte nel corso della sua filmografia).
Ma questo era solo l’inizio della carriera di un regista, sceneggiatore e montatore che avrebbe incantato e commosso il mondo intero.
Con cosa iniziare: After Life
Ci sono vari film adatti per iniziare a esplorare la filmografia di Hirokazu Kore’eda, ma il soggetto di After Life ha un’idea di base che arriva come un fulmine a ciel sereno nella mente di un cinefilo in erba. After Life inizia in quella che sembra essere una scuola con persone di ogni età: l’immagine è realistica, naturale, nulla ci fa pensare a qualcosa di diverso dal nostro mondo. In realtà quello che vediamo è un limbo tra la vita e la morte.
Se in Maborosi, Kore’eda analizzava la morte dal punto di vista di chi è rimasto in vita, nel suo secondo film l’analizza dal punto di vista dei defunti, arrivati in questo limbo con un solo compito: pensare alla propria vita, scegliere il ricordo più felice, descriverlo nei minimi dettagli così che gli addetti ai lavori di questo luogo spirituale possano girare un cortometraggio da proiettare al defunto per l’eternità. Hirokazu Kore’eda gira un film meta cinematografico, usa il cinema come paradiso e la morte come luogo di riflessione, come naturale conclusione di un percorso dove ci si può finalmente fermare per guardarsi indietro, pensando ai momenti più felici, ai cari, ai rimpianti, parlando quindi della vita nella sua interezza.
Un ritratto malinconico che nelle mani di Kore’eda riesce a trasmettere serenità e voglia di vivere. È questo il talento del regista nipponico: trattare tematiche estremamente drammatiche ma trasmettere emozioni positive, illuminando la mente di chi in un momento della propria vita vede tutto nero.
Con cosa proseguire: Father and Son e Un affare di famiglia
Tanti registi giapponesi hanno scelto di usare il proprio cinema mandando dei messaggi forti agli abitanti più tradizionalisti del proprio Paese, ma quasi sempre questi lo fanno in modo offensivo più che riflessivo, trasmettendo sicuramente sensazioni forti ma che spesso vengono ben accolte solo da chi la pensa già in quel determinato modo. Kore’eda invece vuole far riflettere proprio chi ha la mentalità che lui stesso critica, quindi scrive, dirige e monta dei film tradizionali che possano arrivare a chiunque, analizzando scrupolosamente chi per lui ha ragione e chi ha torto, avvicinandosi a questi ultimi e facendogli capire – scatenando delle forti emozioni – quanto siano obsolete alcune delle loro convinzioni tradizionaliste.
Una delle tematiche principali della sua filmografia è quella della famiglia e dell’orgoglio sanguineo, dunque in Father and Son lo tratta con la storia di due neonati casualmente scambiati in ospedale, un evento scoperto dopo sei anni e che manderà in crisi un padre orgoglioso del proprio sangue che, fino a quel momento, ha cresciuto meticolosamente il proprio bambino per renderlo perfetto.
Kore’eda scrive una sceneggiatura psicologica che riesce a far empatizzare diversi tipi di spettatore in tutti i personaggi (anche quelli con una mentalità lontana dalla propria), creando un conflitto emotivo interno che si risolve con un compromesso dettato dall’amore dove i sentimenti infrangono ogni dogma.
Nel 2018 evolverà questo tipo di narrazione portando in scena il suo film più celebre: con Un affare di famiglia vincerà la Palma d’oro al Festival di Cannes, il Premio César per il “Miglior film straniero” e nella medesima categoria si aggiudicherà la sua prima candidatura agli Oscar (quell’anno vinto inevitabilmente dal quotatissimo Roma di Alfonso Cuarón).
La storia tratta le vicende di una famiglia povera con varie occupazioni, tra cui spicca quella del padre e del figlio in quanto taccheggiatori; una sera questi notano una bambina del quartiere chiusa fuori dalla sua abitazione e la portano a casa per la notte, ma decideranno di tenerla una volta aver notato dei lividi sulle sue braccia. La piccola diventa un membro della famiglia e viene amata più di quanto sia mai stata amata in tutta la sua vita. Kore’eda crea un nuovo conflitto tra giusto e sbagliato. Il film è una tenera storia di risate e abbracci, una storia di affetto tra non consanguinei, ma l’adozione è un rapimento, e questo rende la storia una bomba a orologeria.
Con cosa non iniziare: Air Doll e Il terzo omicidio
È raro vedere Kore’eda fuori da quel cinema tradizionale che lo ha reso grande, ma con Air Doll e Il terzo omicidio dimostra di sapersi trovare a suo agio anche fuori dalla propria comfort zone.
Air Doll è un dramma di genere fantastico: il film inizia con un uomo che torna a casa, fuori campo lo sentiamo parlare con la moglie, ma nell’inquadratura successiva scopriamo che sta parlando a una bambola gonfiabile.
L’uomo la tratta come fosse reale e come fosse davvero sua moglie. Una mattina la bambola prende vita, esce di casa, esplora il mondo per la prima volta. La sera, prima del ritorno del marito, si fa ritrovare dove era stata lasciata e finge di essere ancora irreale. La donna trova lavoro in un videonoleggio (anche qui come in After Life il cinema è simbolo di positività) e conduce una vita normale, in libertà, ma nascondendosi dal marito e tornando una donna-oggetto quando lui rientra dal lavoro.
Il film è una spietata critica al patriarcato, ma anche in questo caso Kore’eda sceglie la via della sensibilità anziché quella dello sconvolgimento, quest’ultimo un metodo prediletto da alcuni dei suoi illustri colleghi connazionali, come Sion Sono, un grande autore che tratta spesso queste tematiche ma in modo più anarchico e aggressivo.
Con Il terzo omicidio Kore’eda intraprende la strada del thriller investigativo: un film con un cast di prim’ordine, tesissimo, caratterizzato da alcuni tratti stilistici del cinema hollywoodiano e da una colonna sonora splendida di Ludovico Einaudi; l’internazionalità dell’opera è un pregio in quanto questa non si distacca completamente dal cinema giapponese e quindi non ne preclude la godibilità in patria, anzi, il film viene acclamato da pubblico e critica aggiudicandosi ben cinque premi ai Japan Academy Awards (i premi cinematografici più importanti del Giappone). Insomma, due ottimi film, ma sicuramente i meno adatti per conoscere la poetica dell’autore.
Con cosa innamorarsi: Aruitemo aruitemo, Little Sister e La Vérité
Kore’eda viene spesso paragonato a Yasujirō Ozu, un maestro del cinema giapponese autore di pellicole ancora oggi uniche al mondo. I suoi film sono visivamente geometrici, negli interni sfrutta la peculiare struttura delle case giapponesi, negli esterni le ambientazioni tagliano l’inquadratura in diagonale o in orizzontale, ma la sua caratteristica tecnica più atipica è quella delle inquadrature durante i dialoghi, con i personaggi inquadrati frontalmente dando la sensazione che stiano parlando con lo spettatore.
Quel che però ha reso Yasujirō Ozu un gigante del cinema è stato il realismo dei suoi film, con la storia che vive e si regge su quelli che, in altri film, verrebbero definiti “momenti morti”: è qui che Kore’eda risulta vicino al suo cinema, in quelle storie dove la quotidianità è al centro di tutto, il punto in cui narrare tramite il realismo per poi andare ad analizzare tematiche più complesse. In Aruitemo aruitemo e Little Sister Kore’eda destruttura il dramma, utilizza dei personaggi genuini in delle storie ordinarie, con i pasti diventano i perfetti luoghi di ritrovo per la famiglia, teatro di dialoghi ordinari ma fortemente caratterizzanti.
Kore’eda valorizza la quotidianità avvicinando lo spettatore in una storia in cui può rivedersi, così che di conseguenza possa accogliere gli insegnamenti e le emozioni che il regista vuole trasmettere.
La bellezza di emozionarsi con un film di Hirokazu Kore’eda sta nella naturalezza con il quale le emozioni vengon fuori: non cerca mai la lacrima facile, non crea eventi tragici per dare una scossa al pubblico (e se questi ci sono agiscono sui personaggi più che sullo spettatore), l’empatia che si crea con i suoi personaggi è autentica e non si perde in tecnicismi, ogni sua scena è concreta e spontaneamente sensibile. Si potrebbe dire che Kore’eda sta all’affetto come Hitchcock alla tensione, in quanto entrambi si immedesimano nello spettatore e studiano la sua mente per poi mettere in scena la sceneggiatura nel modo maggiormente efficace per realizzare il film più coinvolgente possibile.
Dopo la Palma d’oro vinta nel 2018, Kore’eda decide di iniziare una nuova fase della propria carriera portando il suo cinema fuori dal Paese del Sol Levante. L’anno successivo si presenta a Venezia aprendo la Mostra del Cinema con il suo primo film internazionale, un dramma familiare ambientato in Francia. Con La Vérité Kore’eda torna al metacinema, ma questo resta sullo sfondo, è presente e muove la narrazione, ma è quasi un macguffin, una giustificazione per raccontare la storia di una famiglia, i suoi conflitti irrisolti e per indagare nella vita e nei caratteri dei personaggi, su tutti quello di Fabienne, interpretata dalla leggendaria Catherine Deneuve (vincitrice del Leone d’oro alla carriera nell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia).
Il suo personaggio è scritto in modo sublime e lo si nota soprattutto nella sottotrama tra lei e la nipotina Charlotte: è risaputo che la fantasia dei bambini navighi in mare aperto, per cui quando per la maggior parte del tempo Charlotte definisce la nonna una “strega”, noi ci crediamo poco. Fabienne sta al gioco e dice di aver trasformato il nonno Pierre in una tartaruga che vive in giardino. La tartaruga sparisce dal giardino proprio nel giorno in cui il nonno si presenta a casa… e riappare quando lui va via. Ed è qui che Fabienne riesce a fare una vera magia: ci trasforma in bambini facendoci credere all’impossibile.
È come se Kore’eda, ospite in Francia, volesse valorizzare il suo personaggio utilizzando un espediente da Realismo Magico, una corrente cinematografica tipica del cinema francese di registi come Jean Vigo e Jean Renoir.
Kore’eda ha dichiarato di aver scelto Catherine Deneuve come protagonista del suo primo film occidentale perché innamorato di lei dopo aver visto Les Parapluies de Cherbourg, uno splendido musical diretto da Jacques Demy: la presenza scenica da attrice d’altri tempi, da diva che buca lo schermo con uno sguardo, che piange con la stessa eleganza con cui canta. Catherine Deneuve non poteva che essere la scelta migliore per il ruolo di Fabienne, una magnifica attrice sul viale del tramonto. Non sappiamo se Kore’eda abbia scelto Catherine Deneuve per il suo personaggio o se abbia scritto appositamente il suo personaggio basandosi su Catherine Deneuve, ma sappiamo che il risultato è eccezionale.
Con Broker – Le Buone Stelle (film sudcoreano) Kore’eda gira un nuovo film fuori dal Giappone. È vero che il suo è un cinema orgogliosamente nipponico, ma i valori che trasmette sono universali, così come la morte, i lutti, le famiglie, i pasti. Hirokazu Kore’eda è un autore che usa il mezzo cinematografico in modo essenziale, senza artifici che si perderanno nel tempo, riesce a fare il suo film in qualsiasi periodo storico, in qualsiasi genere e in qualsiasi Paese, perché i sentimenti non hanno confini, ed è per questo che le sue opere sono grandi oggi e lo saranno anche in futuro.
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