Quando Il gigante di ferro, l’opera prima di Brad Bird, esce al cinema venticinque anni fa, il cinema animato era tra le realtà più fervide e movimentate del momento. La Pixar, affermatasi pochi anni prima con Toy Story, si era imposta tra le grandi potenze del settore per la portata rivoluzionaria della sua nuova tecnologia d’animazione CGI; la Dreamworks Animation Studios, anch’essa nuova nel settore, stava affermandosi con le sue produzioni in 2D come Il principe d’Egitto; la Disney continuava ad avere successo nonostante la fine del suo periodo di Rinascimento con titoli come Tarzan; e infine in quegli anni gli USA scoprono le produzioni giapponesi come Principessa Mononoke, che offrono nuove prospettive rispetto al modo di fare animazione.
Quello di Bird, che all’epoca non era ancora il riconosciuto autore di capolavori animati come Ratatouille e Gli Incredibili, era un film relativamente piccolo, proveniente da uno studio di animazione, la Warner Bros. Animation, considerato “minore” (nonostante ci avessero lavorato maestri come Chuck Jones e Friz Freleng), uscito in un momento in cui si stavano scoprendo nuove forme di animazione come la CGI e gli anime.
Forse è anche per questo, oltre che per il contenuto fortemente politico, che la pellicola non riscontrò un immediato successo. Eppure, col passaparola di pubblico e cinefili, è finito per diventare un autentico cult amato e rispettato per la sua animazione, le sue istanze antimilitariste e per la sensibilità e la dimensione personale che caratterizza il film.
Storia di un autentico cult movie
Ispirato al racconto per bambini The Iron Man scritto dal marito di Sylvia Plath, il poeta Ted Hughes, Il gigante di ferro racconta la storia di Hogarth Hughes, un bambino di nove anni che, nel Maine del 1957, scopre vicino casa sua un robot umanoide gigante che ha perso completamente la memoria e non ricorda il motivo per cui è stato mandato sulla Terra. Il bambino deciderà di diventare suo amico e insegnarli le bellezze e la vita nel suo mondo, tenendolo però nascosto da occhi indiscreti: nell’America della Guerra Fredda, infatti, l’esistenza del Gigante è minacciata dal Governo nella persona di Kent Mansley, il quale vorrebbe abbattere la creatura, temendo sia un’arma mandata dai Sovietici per distruggere tutti.
La storia produttiva di questo film è stata notoriamente complessa: nato inizialmente come adattamento musical del concept album The Iron Man: The Musical di Pete Townshend, poi pitchato al grande animatore statunitense Don Bluth, il progetto viene infine opzionato dalla Warner Bros., salvo poi essere messo in stallo per anni e recuperato dall’animatore Brad Bird, il quale fino a quel momento aveva principalmente collaborato alla realizzazione di serie televisive del calibro de I Simpson e The Critic. Bird si innamorò del progetto, e decise di salire a bordo della produzione in qualità di regista, a patto che avesse avuto modo di ripensare la storia secondo la propria sensibilità.
Alla base della nuova versione della storia di Brad Bird vi è una semplice domanda (che poi sarebbe stato il pitch dello stesso Bird ai produttori della Warner Bros.): cosa succederebbe ad un’arma se avesse un’anima e decidesse di non voler essere più un’arma? L’idea, per quanto rischiosa vista la forte maturità tematica, fu invece molto apprezzata dai produttori, tanto che la produzione de Il gigante di ferro iniziò nel gennaio 1997.
A partire da questa forte idea, il regista Brad Bird decide di declinarla con grande sensibilità, adottando molte divergenze dalla storia originale di modo tale da rispecchiare la propria visione della storia e dei temi. Queste scelte forti finiscono per rendere Il gigante di ferro ancora più riconoscibile nel panorama cinematografico e animato del periodo: tra queste spicca l’ambientazione negli Stati Uniti rurali della Guerra Fredda – voluta dal regista, tra le altre ragioni, per il contrasto interessante creato tra la campagna isolata e una grande creatura futuristica e metallica come il robot e per giustificare il clima di intolleranza verso lo straniero che serpeggia in tutta la pellicola e la comunità raccontata nel film.
Un’altra idea sicuramente innovativa e d’impatto è la scelta dell’ibridazione tra l’animazione tradizionale e l’animazione in CGI del Gigante di ferro: questa scelta permette non solo di rendere verosimili i movimenti innaturalmente rigidi del personaggio – visto che l’animazione tradizionale è nota per la sua estrema fluidità nei movimenti, ma anche di sottolineare l’alterità del personaggio del Gigante rispetto al mondo in cui si ritrova. Il suo status di outcast viene evidenziato non solo a livello narrativo, ma anche pro-filmico attraverso la sua texture e la sua stessa animazione, rendendo ancora più potente questo concetto e lo sviluppo della storia.
Terminata la produzione durata più di due anni, Il gigante di ferro esce nelle sale statunitensi il 6 agosto del 1999: nonostante la critica lo avesse acclamato e i mestieranti del mondo dell’animazione l’avessero osannato, il film si rivelò un flop al botteghino, incassando soltanto trentuno milioni di dollari su un budget di cinquanta. Eppure, nel corso degli anni, grazie alle uscite di VHS e DVD e ai passaggi televisivi, il film iniziò a attirare sempre più pubblico per divenire presto un film di culto, fino al punto in cui oggi gli viene riconosciuta la sua piena grandezza e viene considerato uno dei film d’animazione più belli della storia del cinema.
Una parabola, quella del successo de Il gigante di ferro, che negli anni recenti con i servizi di streaming e il sempre minor successo della sala risulta sempre meno possibile: i cult movie, quelli divenuti celebri grazie alle VHS o al passaparola, sono quasi stroncati sul nascere da un sistema sempre meno tollerante rispetto all’insuccesso dei film nelle sale. La forma volatile dello streaming, il cui catalogo deve costantemente essere aggiornato e rimpinguato, non aiutano di certo la riscoperta di titoli passati inosservati nelle sale – si veda ad esempio la distribuzione di Furiosa – A Mad Max Saga per comprendere come queste forme di culto cinematografico stiano scomparendo grazie alle nuove forme di produzione e di fruizione del cinema.
La parabola antimilitarista de Il gigante di ferro
Alla base dell’idea del soggetto proposto da Brad Bird per Il gigante di ferro vi sono senza dubbio alcuni dei grandi motivi ricorrenti del cinema d’animazione statunitense, non ultimo il senso dell’amicizia e della fraternità, incarnato dal rapporto che si instaura tra Hogarth e il Gigante, fatto di crescita e di condivisione nonostante la difficoltà dettata dalla lontananza dei due.
Questo tema trasversale è diventato caro soprattutto alla Pixar – in cui Bird peraltro finirà per lavorare nei suoi successivi progetti, la quale incentra la totalità delle sue opere sulla formula del buddy movie, in cui due personaggi diversissimi tra di loro finiscono per affrontare forzatamente un viaggio insieme durante il quale vengono appianate le loro differenze e riscoprono un senso di amicizia molto profondo.
Oltre ai temi tipici del cinema animato, ne Il Gigante di ferro è possibile individuare sin da subito quelli che sono alcuni dei tratti e dei temi tipici del cinema di Brad Bird. All’interno della pellicola, spicca senza dubbio il motivo antimilitarista che pervade l’intera narrazione. Il rapporto d’amicizia che s’instaura tra il Gigante e Hogarth è estremamente puro, come l’amicizia tra due bambini ignari del contesto di odio in cui si trovano. Sono infatti gli adulti a vedere con malizia la creatura aliena: anche il personaggio di Dean McCoppin, amico adulto del bambino e beatnik in un’America conservatrice, quando vede per la prima volta il Gigante rimane terrorizzato per via del pericolo che può rappresentare.
Questa dimensione di intolleranza e di paura del diverso è incarnata dal villain della storia, Kent Mansley: un agente federale speciale che, arrivato nel Maine dopo le segnalazioni di strani avvenimenti nella zona, è disposto a tutto pur di trovare e distruggere il Gigante. Questa sua ossessione sembra essere giustificata in parte da un patriottismo e un senso della protezione della patria esasperato, dall’altro lato dalla necessità di impressionare i propri capi nell’esercito, di modo da far carriera e divenire sempre più potente.
La scelta audace compiuta in sceneggiatura per incentivare questa visione è quella di ribaltare la classica prospettiva rispetto alle narrazioni occidentali della Guerra Fredda: il cattivo in questa storia è l’americano patriota disposto a tutto pur di annientare la potenziale minaccia sovietica, mentre il protagonista è una creatura aliena gigante armata fino ai denti.
Questo ribaltamento di prospettiva dimostra come il cieco fanatismo per un’ideale politico – a prescindere da quale esso sia – ci allontana dalla moralità che andrebbe osservata: la paranoia verso il diverso porteranno Mansley a fare di tutto, persino lanciare una bomba nucleare sulle coste degli Stati Uniti senza il permesso del suo superiore pur di salvaguardare non solo il proprio Paese, ma anche la propria carriera militare.
Il Gigante di ferro tra identità, memoria e crescita
Dall’altro lato dello spettro abbiamo invece il Gigante, il personaggio più complesso e stratificato dell’intera pellicola. Il Gigante di ferro, infatti, presenta un forte percorso di crescita personale, che richiama quello dello sviluppo infantile – non a caso, lo stesso Hogarth lo descrive a Dean come “un bambino piccolo”. Dopo essere entrato in contatto con la scarica elettrica, infatti, il Gigante perderà completamente la sua memoria: questo fa sì che la creatura debba in qualche modo essere riprogrammata da zero, avendo essa perso il suo senso di sé creato dai propri ricordi di macchina. Sarà solo attraverso l’amicizia con Hogarth che egli scoprirà un nuovo sé, andando a creare nuovi ricordi e “riprogrammandosi” così di conseguenza.
La nuova identità acquisita dal Gigante si plasma su quelli che sono i valori e la prospettiva del bambino protagonista: una visione della vita, la sua, che si fonda sui valori universali dell’amicizia, del bene nel suo senso più ampio e assoluto. Non è però una visione completamente disincantata, quella di Hogarth: in una delle scene più toccanti della pellicola, il bambino dovrà spiegare al Gigante cosa sia la morte, dopo aver assistito ad una scena di caccia che vedrà come vittima un cervo. Per quanto sia un momento triste, Hogarth spiega al Gigante quanto la morte non sia una cosa negativa, ma sia parte integrante della vita stessa.
La scoperta delle armi sembra però risvegliare qualcosa nel Gigante, come un inconscio rimasto sopito fino a quel momento, che lo porta ad attivare le sue armi qualora si senta minacciato. La morale impartitagli da Hogarth e l’identità nuova che egli è riuscito a costruirsi però, nel finale del film avranno la meglio sull’istinto: anziché combattere i militari che lo stanno attaccando, il Gigante di ferro preferirà invece schivare i colpi e portare in salvo il suo amico. Questa nuova affermazione identitaria troverà il suo massimo compimento nel suo sacrificio finale: impersonando quello che è il modello di rettitudine massimo, ovvero Superman, deciderà di compiere l’atto eroico estremo, il sacrificio della sua stessa vita, per portare definitivamente la pace.
Questo percorso di crescita vissuto dal Gigante trova anche una corrispondenza, all’interno del film, nel linguaggio che il personaggio adotta per tutta la durata della pellicola. All’inizio della pellicola il Gigante di ferro, infatti, non parla ed emette solo pochi versi; man mano che il film procede, il Gigante comincerà a imparare parole, termini, fino ad arrivare alla fine della pellicola con una padronanza avanzata della lingua, tanto che gli permetterà di comunicare, nel finale, con Hogarth le sue intenzioni finali, il suo sacrificio.
La celeberrima battuta finale “I am Superman” corona dunque non solo l’atto eroico finale del protagonista del film, ma porta con sé anche il senso ultimo del film legato alla scoperta e allo sviluppo della propria identità e della propria persona in base al proprio essere e moralità; per usare le parole di Dean all’interno del film, insomma, “You are who you choose to be“.
La cultura pop nel cinema di Brad Bird
Ne Il gigante di ferro è possibile riconoscere il grande amore che Brad Bird ha per la cultura pop nel suo senso più ampio, e che tocca principalmente il cinema di genere e i fumetti – amore che, peraltro, verrà omaggiato anche nel film successivo di Bird, Gli Incredibili. Non è un mistero, infatti, che un altro dei motivi per cui il regista ha deciso di ambientare il film negli anni ’50 del Novecento è proprio legato al grande proliferare di cultura pop soprattutto di genere, fondamentale per il racconto che voleva imbastire Bird.
Questo apprezzamento per la produzione di genere si riscontra ne Il gigante di ferro su più livelli. Il livello più superficiale è legato primariamente alle incursioni esplicite di fumetti e film all’interno della pellicola: il protagonista, infatti, viene presentato sin da subito come appassionato di film spaventosi e di fantascienza degli anni ’50, sulla falsa riga de L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (non a caso all’inizio della pellicola Hogarth sta vedendo in TV proprio una parodia di questo cinema di fantascienza cheap) e di fumetti della Action Comics, che darà da leggere al Gigante come favola della buonanotte.
Oltre a questi richiami diretti, il regista omaggia anche ad un livello più profondo questo tipo di produzione: la stessa sceneggiatura de Il gigante di ferro e lo stesso design dei personaggi richiamano inevitabilmente la produzione fantascientifica proprio degli anni ’50. Da un lato, infatti, la storia presenta alcuni stilemi tradizionali della narrativa di fantascienza (l’invasione, l’esercito, il contatto con l’umano), i quali vengono tuttavia piegati alle necessità della storia che Bird vuole raccontare; dall’altro design come quello del Gigante non possono non richiamare alla mente la visione del futuro che l’epoca atomica aveva, fatto di robot spigolosi e metallici, un immaginario che fondeva avanzata tecnologia e pericolo immanente.
È anche grazie a dettagli come questi che Il gigante di ferro è riuscito a distinguersi nel panorama cinematografico del periodo. Questi accorgimenti, queste costruzioni e queste scelte rendono infatti la pellicola un prodotto estremamente personale, intimo per Bird; elementi come questo aggiungono forte personalità e sensibilità a una pellicola destinata ad essere ricordata e amata ancora molto a lungo.
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