Quando si esce dalla sala dopo aver rivisto per la trentesima volta The Blues Brothers sembra quasi che la vita sorrida più luminosamente. Si potrebbe anzi dire che esiste un prima e un dopo la visione di un bel film; un viaggio in cui il buio della sala rappresenta un elisir vitale per lo spettatore, e in cui il cinema si trasforma, parafrasando Christopher Vogler, nell’avvicinamento alla caverna più profonda. Il cinema diventa quindi una prova che si supera una volta usciti dalla sala: attraverso essa lo spettatore compie una trasformazione, una resurrezione onirica da lapsus freudiano, quel ritorno con l’elisir in cui risiede l’essenza contemplativa del cinema stesso. Ci dice Vogler:
L’Eroe ritorna nel Mondo ordinario [il nostro] ma, se dal Mondo straordinario [quello del film] non portasse con sé un elisir, un tesoro o una lezione, il viaggio sarebbe inutile.
Ma ci sono film e film al mondo: Quarto potere, 8½, Singin’ in the rain, uno Scorsese qualsiasi o The Blues Brothers appunto, e poi quelli come Il primo giorno della mia vita, in sala dal 26 gennaio 2023, vicenda basata interamente sui concetti di rinascita dell’Eroe e seconde possibilità concesse a gogo. Tutto è sbagliato, farraginoso, troppo idilliaco e patinato in rapporto alla drammaticità della storia narrata. Il risultato è il completo ribaltamento (in negativo) di quegli stessi elementi su cui il film si basa, trasformando Il primo giorno della mia vita in un incubo sonnolento.
Il primo giorno della mia vita, seconde possibilità
Si tratta del nuovo film diretto da Paolo Genovese, autore consacrato con Perfetti sconosciuti, il quale scrive anche la sceneggiatura, qui con l’aiuto di Isabella Aguilar e Paolo Costella.
Quattro vittime di suicidio giungono in una dimensione parallela alla nostra, uno sconosciuto li accoglie e li accompagna in un viaggio lungo sette giorni per aiutarli a riflettere sul loro insano gesto. Ai protagonisti viene così data una seconda possibilità, e Il primo giorno della mia vita si mostra insomma come una rivalsa, un modo per far riacquistare senso e valore alla vita dei protagonisti.
Come ogni opera di Genovese, il film vanta un cast stellare: dalla Margherita Buy, qui agente di polizia che ha perso la figlia adolescente, fino ai sempreverdi Valerio Mastandrea e Toni Servillo (quest’ultimo nei panni dello ‘sconosciuto’ che accoglie i protagonisti nell’oltretomba). Ottima aggiunta Sara Serraiocco, nei panni di una suicida, ex ginnasta di importanza mondiale, ora però costretta in sedia a rotelle a causa un incidente in pedana.
Qual è il problema con Il primo giorno della mia vita?
Ogni volta che Genovese annuncia un film, tutta Cinecittà accorre alla chiamata, forse per l’opportunità di carriera o forse perché il regista stesso paga bene ed elargisce tasselli di esperienza; eppure, un grande cast non è garanzia di qualità. The Place lascia a desiderare, Perfetti sconosciuti è invecchiato molto male – specie in un contesto postpandemico e geopoliticamente instabile – e di Supereroi non rimane che il briciolo di un sogno collettivo, come se fosse un vago ricordo. Anche Il primo giorno della mia vita si unisce ai fallimenti del “maestro”, e forse il problema più grande risiede proprio nella sua completa mancanza di colore e struttura filmica, rendendo tutta la vicenda dimenticabile.
Ancora una volta Genovese dimostra la sua completa sterilità cinefila. Questo film ricalca i suoi predecessori: recitazione da saggio scolastico, dialoghi volutamente teatrali e sopra le righe, regia a malapena presente. In una parola: anonimo. Il primo giorno della mia vita assume la stessa aria degli altri: un resoconto inutilmente misterioso di qualcosa di già scritto che prende vita davanti agli occhi dello spettatore in un manierismo pretenzioso.
Paolo Genovese: l’ennesimo regista nella solita Italia
Quale senso della vita? Quale autentico scopo del cinema? Il primo giorno della mia vita sta a Genovese come A casa tutti bene sta a Muccino, ovvero semplice e pura magniloquenza di registi italiani che non hanno talento e occhio cinematografico ma uno stipendio troppo alto.
Proprio per questo Il primo giorno della mia vita rappresenta l’ennesima cartina tornasole dello stato di salute del cinema italiano. Usciti dalla sala dopo la visione ci si sente ristorati, non come se si vivesse il primo giorno di un’esistenza recuperata, ma piuttosto come se ci si fosse risvegliati da un autentico incubo. Il ritorno del Mondo ordinario diviene il tanto sospirato ritorno alla normalità e alla vita comune, i titoli di coda diventano la cosa più bella e più attesa da lì alle due ore di durata della pellicola e la voglia di rivedere The Blues Brothers per la trentunesima volta si fa necessità immediata.
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Anche io penso che questo film è stato pensato per attirare la gente al cinema ,eh l ha girato Genovese ,ma nulla ti tocca il cuore ,ti lascia la in sospeso con l amaro in bocca con solo la voglia di andare a vedere Grease …….un film che ti lascia in sospeso e delusa ….non andrò più a vedere i film di un regista che si crede bravo ma in realtà solo gonfiato ….più umiltà e bravura ,poi non sempre ciò che si ha in testa riesca sul set…….
Un commento ingeneroso. Il film dimostra una forte sensibilita’, che non e’ un difetto, soprattutto in questo periodo. E non e’ detto che un film debba per forza trasportarci in un mondo di supereroi o di personaggi ‘finti’ per essere considerato cinema. Magari riflettere su noi stessi e sulla nostra ‘umanita” qualche volta fa bene a tutti, anche all’ estensore dell’ articolo. Comunque, con buona pace dei critici o presunti critici cinematografici con la puzza sotto il naso vorrei solo aggiungere che il film non mi ha fatto addormentare e nemmeno mi ha annoiato. Tutt’ altro.
Ciao Valeria! Sono l’autore dell’articolo. Partiamo dal presupposto che non esistono personaggi ‘finti’ (anche se l’ha messo tra virgolette, questa definizione è di per sé falsa perché tutti i personaggi al cinema o nei romanzi sono finti). Io nella recensione ho citato Christopher Vogler, importante sceneggiatore hollywoodiano, non per una casualità, ma perché autore del saggio Il viaggio dell’Eroe, che negli anni è diventato una vera e propria pietra miliare della scrittura creativa. Il mio intento non era quello di spostare l’attenzione su altri generi cinematografici, come quelli di supereroi, e staccarmi da film che fanno riflettere sulla nostra umanità. Anzi, quei film li ritengo migliori alle volte! Subito dopo questo articolo ho fatto uscire una recensione positiva sul nuovo film di Shyamalan (se vuole leggerlo lo può trovare nella sezione film di NPC), che può essere definito trenta volte più ‘umano’ di qualsiasi film di Genovese. Non è questo il punto. Il punto è che l’umanità in questo film è spocchiosa, prolissa, raccontata male, falsa sotto ogni punto di vista. Il problema di Genovese è proprio che tenta di fare film intimisti e drammatici, ma lo fa con furbizia, è scaltro e sa cosa vogliono le produzioni, sa come livellare le pareti e smussare gli angoli in modo tale che non si urta la sensibilità del pubblico; o meglio, non urta quello che le produzioni pensino disturbi la sensibilità del pubblico. Il cinema in Italia è essenzialmente, e per la maggior parte delle volte, questa roba qua: “Un paese di musichette mentre là fuori c’è la morte” per parafrasare un grande. Ecco perché questo attacco. Si fidi che io rifletto molto, forse anche troppo, sulla mia ‘umanità’. E anche se non lo facessi, non mi servirebbe un film di Genovese per farlo.
Grazie per aver dato un suo parere sincero sul film, e grazie per essersi fermata a discuterne con noi. Dirò la frase più scontata di sempre: il mondo è bello perché è vario; e il cinema, a suo modo, è magnifico perché divide i gusti delle persone, che per fortuna sono migliaia e non solo uno. Sono felice che il film non l’abbia fatta addormentare, almeno una tra noi due è uscita dalla sala soddisfatta e con la voglia di ritornarci: questo dovrebbe fare il cinema sempre e comunque.
“Studente alla Statale”: con questa recensione, Marciano’ conferma che deve ancora finire di studiare.
Nulla di scontato, in questo film, che di spocchioso non ha nemmeno un grammo. Il film affronta con tenerezza assoluta il tema delicato e tragico quale è quello – troppo spesso taciuto e considerato tabù – del suicidio. Un percorso doloroso per rinascere anche attraverso la lente del conflitto interiore, che conduce lo spettatore all’introspezione e allo sguardo indulgente verso se stessi. Una lezione che insegni ad apprezzare la semplicità delle piccole cose: su un muro campeggia la citazione di Trilussa “La felicità, in fondo, è una piccola cosa”. Come gli spaghetti mangiati in riva al mare, o il profumo dei popcorn, che coinvolge anche lo spettatore nel buio della sala.
L’idea ossessiva dei quattro protagonisti toglie in realtà il respiro a intere generazioni, e non risparmia nemmeno i bambini. Non sarà l’angoscia di “Europa 51” , ma l’angst del regista è il riflesso dell’angoscia collettiva, e il pensiero dominante è l’assenza. L’assenza negli altri, il vuoto lasciato da chi ha scelto di non restare o, semplicemente, ha cessato di vivere. La figlia di Arianna vivrà nel parco, nella stanza, in sua madre che ne conserverà il ricordo. Persino colui sceglie di gettarsi dal ponte, nonostante gli innumerevoli tentativi degli amici e dello “sconosciuto” per impedirlo, persino il più convinto di suicidarsi, nel finale, regala una speranza: avrà lo stesso compito di affiancare le esistenze sul baratro, quasi per una legge di contrappasso. Un film che ricorda Wim Wenders, in cui però gli angeli non sono creature ultraterrene. Sono anime che camminano in mezzo a noi, piccole luci che illuminano il viaggio al termine della notte.
Premetto di non essere una grande fan del cinema italiano recente, tranne pochi registi accurati e sensibili con abilità filmiche precise, tutti gli altri mi sembrano uguali fra loro. O scelgono cast poco funzionali alla storia o sceneggiature che fanno acqua o personaggi grotteschi….detto ciò, concordo con Andrea Marciano’ troppi luoghi comuni su temi importanti e poca empatia col pubblico, ovvero tanta carne al fuoco per un cast sprecato, forse solo la Buy aveva un briciolo di umanità e sofferenza in più che arrivava sullo schermo. Gli altri non parevano convinti del ruolo…. Genovese per me resta ancora nel limbo delle produzioni italiane (purtroppo)