Nel Giappone feudale del 1582, i luogotenenti di Oda Nobunaga decidono, a seguito della scoperta di una lettera d’eredità indirizzata al figlio maggiore, di liberarsi del loro tirannico padrone, sfruttando il suo sottoposto più rancoroso e vessato, Akechi Mitsuhide, durante il soggiorno al tempio di Honno-ji. L’evento passerà alla storia per aver posto fine all’unificazione del Paese voluta dallo stratega, spianando la carriera politica e militare a personaggi storici come Hideyoshi Hashiba e Tokugawa Ieyasu.
Questo iconico momento storico è protagonista di Kubi, ultima fatica di Takeshi “Beat” Kitano presentata al Festival di Cannes e al Torino Film Festival. Il film è un atipico e sfrontato jidai-geki sull’incidente di Honno-ji e, al tempo stesso, una satira sul potere che, come unici mezzi di affermazione e successo, usa le teste dei nemici e il tradimento. Kubi dipinge così un ritratto meno classico e onorevole, ma più subdolo e ironico della casta dei samurai. Tutti sono disposti a qualunque mezzo per ottenere più potere, ma alcuni lo fanno con stile e divertimento.
Kubi, un dramma storico rivestito di ironia e violenza
Il regista “Beat” Takeshi non vedeva l’ora di affrontare questo soggetto dai tempi di Sonatine e, appena ha ottenuto i fondi necessari per la realizzazione della sua personale visione dell’evento storico, ha realizzato una produzione mastodontica per Kubi, non priva di problemi durante la lavorazione, mettendo in scena uno spettacolo spassoso e sardonico su uno dei misteri più celebri della storia dei samurai. Per sé ha riservato il ruolo dello scaltro Hideyoshi, ex contadino che, con la complicità del fratello Hidenaga, del generale Kanbei (interpretato da Tadanobu Asano) e di Sorori, un ex ninja che si guadagna da vivere come comico e intrattenitore di corte, complotta e tesse trame tra i suoi alleati e nemici. Non osserva le regole del bushido, ma è spinto solamente dal desiderio di conquista e dal divertimento degli inganni.
Kubi annovera nel cast molte star del panorama giapponese: oltre al già citato Asano, spicca un Ryo Kase, già protagonista della serie di Outrage. Lo vediamo sopra le righe ed eccentrico nel ruolo, più che di un sovrano glorioso e calcolatore, di un padrino della yakuza dispotico e folle che vuole alimentare la discordia e le lotte interne tra i daimyo, solo per il suo piacere e la sua passione per la guerra. Compaiono anche nella storia figure leggendarie come l’Hattori Hanzo di tarantiniana memoria, il samurai di colore Yasuke e il machiavellico cerimoniere di corte Senno Rikyu, che ospita nella sua casa del tè le riunioni dei cospiratori.
La storia in chiave sardonica e in tutta la sua follia
Kitano, con il suo spirito irriverente, attua in Kubi un’operazione già molto vista nei suoi film, ma sempre usando suo stile sfarzoso e sfrenato per reinventare un genere e sbugiardare la tradizione dei drammi storici, sebbene nelle battaglie riprenda gli stilemi di Kurosawa. La violenza esplode sin dalle prime immagini di un fiume pieno di cadaveri, senza testa e spolpati dai granchi, e mette sullo stesso piano contadini ambiziosi come Mosuke e guerrieri celebri come Mitsuhide, che non vengono risparmiati dal massacro: non c’è un senso epico e glorificante nelle loro gesta e nelle loro morti.
Kubi ha uno spirito critico contemporaneo che sovverte il genere e mostra anche aspetti nascosti della vita dei samurai come l’amore omoerotico e gli stratagemmi per sopravvivere in guerra: basti pensare alle sequenze comiche d’azione dei cloni di Ieyasu mentre è in battaglia o si sposta per le città. Le storie di samurai non sono mai state così subdole e divertenti. Merito di Kitano, che le avvicina a noi tra una barzelletta e un ‘espressione buffa, svogliata e di disappunto di fronte ad un harakiri.
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