La tessitura stilistica di Éric Toledano e Olivier Nakache è ormai un fatto noto, un navigato marchio di fabbrica che fin dagli albori di Quasi Amici varia sul tema ma resta sempre fedele a se stesso. La loro morsa sul pubblico è sregolata, dinamica, ostentativa, bonaria e indolentemente impetuosa. Un anno difficile, presentato in anteprima fuori concorso alla 41esima edizione del Festival di Torino e in sala dal prossimo 30 novembre, riprende le fila di tutti i discorsi interrotti nelle opere precedenti e ci traghetta, come un ponte, verso una nuova storia indigesta di idiosincrasie ed urgenze umane.
“È stato un anno difficile”, ci ripetono i volti dei presidenti francesi che si rincorrono all’indietro negli anni, montando l’incipit del film su una provocazione inchiodata a un oggi atemporale, dove tutto sembra destinato a non cambiare mai, al patto di peggiorare sempre. In filigrana, tra le derive delle vite dei suoi due protagonisti, Un anno difficile dissemina impegno politico.
Un sapore di rottura che si arrende all’eloquenza con cui Toledano e Nakache sono più bravi a dialogare, ossia l’aggrapparsi ai caldi temi sociali per acclimatarli agli sbalzi di temperatura del dramma e della commedia, della leggerezza e della sensibilizzazione. Questa volta nel mirino ci finiscono consumismo, emergenza climatica, fanatismo attivista e tutte le più satiriche – e drammatiche – fragilità individuali. Il risultato non è il picco della loro filmografia, ma il bersaglio lo centrano con la solita goliardia.
Si riparte da amicizia e solidarietà
Un anno difficile riparte da un’amicizia maschile, da una solidarietà che sa come essere sincera perché visceralmente condivisa. Bruno (Jonathan Cohen) e Albert (Pio Marmaï) sono simili in un mondo di dissimilitudini, relegati ai suoi margini per scelta, non-scelta, inadeguatezza e dissanguamento economico, emotivo e sociale. Il primo è in cerca di un modo per rimettersi in piedi dopo la fine del matrimonio e l’allontanamento dal figlio; il secondo è solo, senza fissità, inquilino invisibile dell’aeroporto in cui lavora. Entrambi sono erosi dai debiti ma meschini e irresistibili quando chiamati a reinventarsi.
Lo fanno come possono, delegando le proprie esistenze alla speranzosa riuscita di ogni escamotage inseguito. Un anno difficile slabbra immediatamente la sua narrazione, sparigliando le carte tra l’eccentricità dell’aiuto di Henri Tomasi (Mathieu Amalric), volontario presso un’associazione che si occupa di sovraindebitamento, e tutta l’infinita serie di espedienti cui i due uomini giornalmente si rimettono.
Comprano e rivendono qualsiasi cosa passi davanti ai loro occhi, fiutano affari e strade in cui svicolarsi da qualsivoglia tipo di onere economico. È così che vengono a contatto con un gruppo di ecologisti, attratti unicamente dal cibo e dal bere gratuito. Ed è così che finiscono invischiati tra le loro contestazioni. E se subito cercano un modo per smarcarsene, con il tempo ne intuiscono le potenzialità. Finendo per affezionarcisi.
Un anno difficile, tra buonismo e spietatezza
La causa sposata dal film è insistita sulle criticità più accese del nostro presente. Surriscaldata dal macro-centro del cambiamento climatico e incanalata nelle singolarità delle prese di coscienza. L’attenzione alla consapevolizzazione passa, tramite pungente ironia, nella messa alla berlina del consumismo più sfrenato, compulsivo e non necessario. Un anno difficile cantilena al ritmo del suo mantra e, in capo ai processi d’acquisto, ci vincola a porci le medesime domande: “Ne ho bisogno? Ne ho bisogno veramente? Ne ho bisogno veramente, adesso?” Poi ce ne mostra le incertezze e i sabotaggi e ci sorprende a riderne amaramente, autoinvitandoci a processo.
Militante ed evocativo, critico e compassionevole, il cinema dei due registi ha sempre barcollato in equilibrio tra ossimoriche sollecitazioni espressive. In alcuni casi più ispirate di altre, ma continuamente in cerca di eterogeneità, ombreggiature e disincantata empatia. Qui a tratti sovrabbonda, banalizzando il proprio mordente e negoziando un po’ di originalità. Ma mantiene ancora le sue fisime, contaminando la grazia di una vitalità tutta satirica con un’attualità che boccheggia sofferente verso un futuro già troppo presente.
Un anno difficile non fa sconti ai propri esistenti e nei chiaroscuri dei suoi caratteristi sa come diramare vulnerabilità ed eccessi, contraddizioni e complessità. Le umanità di Toledano e Nakache hanno sempre avuto poco a che fare con l’assolutezza, sono spesso state, piuttosto, volti dicotomici dai tratti volutamente enfatizzati. Lo sguardo registico è ancora una volta puntualizzato da questi specifici pigli di scrittura (si veda il personaggio interpretato da Noémie Merlant), poco inclini a condannare ma molto furbi nell’ammiccare, sovrascrivendo un giudizio che perde carica celebrativa nel momento stesso in cui accoglie ognuno (di noi) in un unico grande spazio di condivisione e inettitudini.
I suoi grigi, Un anno difficile, li fa abitare da tutte le personalità che lottano per un’esistenza migliore, che si tratti dei sotterfugi dei protagonisti o delle proteste dimostrative dei loro compagni. Quindi quel giudizio, Toledano e Nakache, lo spostano altrove, verso i volti che al passato e al futuro hanno saputo solo accodare delle tiepide scuse. Di cui forse, nessuno, ha mai avuto veramente bisogno.
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